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Scoprire De Rosa: perché il cuore non è solo nel logo

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Il primo “scoop” è proprio lì ad attendermi dietro la porta d’ingresso dell’azienda De Rosa e ha le fattezze di un signore con i capelli bianchi, in compagnia di due ospiti, alla scrivania dello showroom. Non oso immaginare, ma la realtà supera la fantasia. È lui, Ugo De Rosa, il fondatore, il meccanico di Eddy Merckx. Lo rivela con semplicità quando mi presento e gli chiedo del figlio Cristiano, oggi amministratore dell’azienda, con il quale ho un appuntamento.

Il secondo “scoop” precede il primo di una settimana. La scena? Il Velodromo Parco Nord dateciPista. Pedalavo sulla variante in salita in compagnia di Tanja, un’amica che non teme le nostre velocità centrifughe e ogni tanto fa una capatina dalle nostre parti, ed ecco che mi si affianca un ciclista con una bella De Rosa di quelle tutte logate in uno stile che ricorda i graffiti di Keith Haring. “Scusi se la disturbo, Lei è Laura Magni?” “Sì sono io… ciao!” Mi affretto a rispondere con un entusiastico “tu” per spostare subito il dialogo su un piano di pratica accessibilità. “E tu chi sei?” “Mi chiamo Cristiano De Rosa e volevo proprio ringraziarti per quello che fate qui in velodromo…

Panoramica della factory De Rosa, fondata nel 1953 e nell’attuale sede dal 1985 a Cusano Milanino.

Ecco. Questo il preambolo che anticipa e motiva il mio dito che suona al campanello della De Rosa nella sua storica sede centrale e produttiva aperta nel 1985 a Cusano Milanino. Da quando cioè a Milano, dove l’azienda nacque nel vivace dopoguerra del ’53, non c’erano più spazi sufficienti per supportare la crescente domanda di biciclette siglate De Rosa.

In questi due semplici episodi c’è già tutta l’essenza di una famiglia che ha fatto dell’understatement la sua cifra. Da sempre. Così come quelle tipiche famiglie milanesi, sobrie e operose, che mai urlano. Sussurrano. Così come si faceva a casa dei miei nonni paterni. E nel sussurro c’è tutta la forza e la convinzione di chi sa bene chi è e dove sta andando.

Tra le numerose squadre De Rosa, la Israel Cycling Academy distintasi nell’ultimo Giro d’Italia

Entro quindi in una factory che sembra il regno della gentilezza. Tutti sorridono, dagli uffici alle linee produttive, perché, proprio come recita il marchio De Rosa, con il suo cuore rosso, qui le bici sono veramente fatte con amore.
Ma bando alle chiacchiere, lasciamo parlare l’officina. Già i tavoli, con la struttura in ferro dipinto d’azzurro e ripiani in legno invasi da utensili dalle mille fogge e funzioni, rivelano l’anima autentica di questo luogo. “Qui se si vuole è possibile vedere nascere la propria bicicletta” mi spiega Cristiano. “Del resto l’affezione che si può provare per una bicicletta che senti tua, perché la facciamo sulle tue misure esatte, porta anche a considerarla viva. Io a volte gli parlo…

L’emozionante momento della saldatura di un telaio in titanio

Qui infatti si parla alle biciclette, ma non si parla mai di taglie Small, Medium e Large. “Al massimo così mi compro le mutande…” dice Cristiano. E in un attimo mi ritrovo a indossare una maschera da saldatore, che però è tutta computerizzata – mica bubbole – per godermi lo spettacolo dello specialista Alessio che salda i forcellini di un telaio imbottito di gas inerte realizzato in titanio, oggi giustamente considerato “ingrediente” da veri intenditori. È infatti solo Stefano “il nero”, esponente autorevole del Makako Team nonché espertissimo ciclista da una vita, che nel mio giro talvolta sfoggia una bici in titanio. E fu De Rosa il primo telaio in titanio che debuttò con tante vittorie e podi al Giro d’Italia e nelle grandi classiche nei primi anni ’90. A riprova che sono certe scelte in fatto di geometrie e studio dei materiali che possono fare la differenza.

Oggi il telaio in titanio De Rosa pesa solo 1.200 gr, una piuma che sorreggo senza sforzo mentre converso con Cristiano, soffermandomi su suo suggerimento sulle saldature che paiono arabescate ed estetiche nemmeno fossero coltelli pattadesi. Perché non può esserci vera e totale performance senza bellezza.

Le saldature dei tubi in titanio sembrano arabescate

Così come non può esserci crescita senza continuità. Forse in tanti questo concetto semplice lo hanno dimenticato. E l’idea dello scontro generazionale, del conflitto per superare il maestro, si è così radicata nella cultura contemporanea che il “di padre in figlio” sembra oggi rivoluzionario.
Cristiano, ma che fortuna che avete. Respiri fin da piccolo l’aria del ciclismo e te ne appassioni al punto da rilanciare la visione di tuo padre in una mission aziendale attuale…” e mentre dico e penso tutto ciò, vedo progressivamente convergere tutte le generazioni intorno a me. Prima la discrezione del padre Ugo che si palesa in punta di piedi mentre indosso la maschera da saldatore e pensa di non essere visto, poi, all’ammiraglia condotta da Cristiano nel mio giro aziendale, si affiancano, con la velocità del giovane gregario che non osa neppure appoggiare la mano sul finestrino, Federico e infine Nicolas, rispettivamente secondo e primogenito. Il più piccolo, Francesco, 18 anni, è a scuola. Ma ha già segnato un goal da consumato comunicatore. In vacanza a 15 anni, incontrando Roberto Mancini e scoprendolo deluso che in hotel non c’erano buone biciclette, gli fece trovare l’indomani mattina una De Rosa fiammante. Da allora il famoso allenatore, ieri all’Inter e oggi in nazionale, è un affezionato cliente De Rosa.

Da sinistra la prima bicicletta da corsa del ’54 e la bicicletta creata da De Rosa per Eddy Merckx

E la famiglia converge, mi affianca… mentre percorro in lunghezza l’officina dove, ai nuovi telai in produzione si alterna l’esposizione delle “eroiche” protagoniste del passato: la prima bici da corsa del ’54, la bicicletta di Mercks, quella di Berzin, la prima in alluminio… Insomma la storia è viva è lotta insieme a noi. Non è rinchiusa in una teca di cristallo.

Quando infine approdo alla tappa centrale del tour, e cioè nella stanza dove sono entrata solo io e i buyers giapponesi il giorno prima, a scoprire la collezione del 2020, ecco che un rispettoso “buongiorno zio” davvero inusuale per chi ha vent’anni oggi, ma pronunciato con la naturalezza della consuetudine, saluta l’entrata in scena di Danilo. Ci sono tutti ed io non posso che essere onorata di questa attenzione.

Le biciclette della nuova collezione sono misteriosamente coperte da teli neri. Ed io naturalmente non mi pongo neppure il tema della curiosità. Per discrezione. Però forse ho superato positivamente tutte le prove iniziatiche e quindi merito il premio della visione in anteprima.

Ciò che ho visto non lo posso dire, ma si sappia che c’è la conferma oggettiva di un percorso corale, dove ognuno ha fatto la sua parte, fino all’ultima generazione. Ed è evidente: il futuro di De Rosa è un’evoluzione forse ancora più convincente del suo passato, che tuttavia non dimentica. Anzi, lo valorizza. Lo promuove. C’è lo zampino di Pininfarina e si percepisce che tra il blasonato ufficio design e la storica azienda milanese si è creata l’alchimia perfetta. Tra persone prima ancora che tra entità aziendali astratte.

Si chiama Metamorphisis ed è la “creatura” realizzata con Pininfarina

Sentendo i designer che motivavano le loro scelte di rinnovamento grafico mi sono accorto che pensavo le stesse cose…” dice Cristiano. E alla domanda sui nuovi colori del 2020 che ad un certo punto mi affiora alle labbra senza temere di essere inopportuna e pensando a quanto le aziende italiane che producono biciclette potrebbero fare meglio, ecco che chi ha contribuito alla loro scelta e definizione, ovvero Nicolas, dopo aver incassato l’ok paterno solleva piano i teli neri e mostra… mostra tre tonalità nuove che veramente spaccano. E che sembrano proprio la migliore risposta a chi nel mondo cerca l’emozione e l’eccellenza italiana.

Chiedo venia per questo racconto così entusiasta. Ma è tutto vero. In De Rosa ho trovato senz’altro ciò che mi aspettavo: ricerca, qualità, tecnologia e naturalmente anche amore, così come comanda il cuore del logo. Ma il vero “ingrediente segreto”, quello che mi ha sorpresa e che forse i De Rosa non hanno ancora scoperto di possedere, è unico e difficilmente si trova in giro. È la poesia.


Ciclismo d’inverno: tra rulli e fughe

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Incomincia a percepirsi un pochino d’aria di primavera, forse perché le giornate si allungano, ma è proprio febbraio il mese più critico per riprendere coraggio e tornare a fare qualche lunga uscita.

Nel mio caso il cerchio magico del Velodromo Parco Nord dateciPista è stato la salvezza. Per molti invece l’idea di affrontare il freddo oppure anche soltanto la fatica di vestirsi a strati li ha dirottati verso i più rassicuranti rulli.

Vero che vestirsi in inverno è un rito infinito. Tra maglie termiche, naturalmente a strati, gambali o calzamaglie, almeno due paia di calze, il puntale sulla scarpa e la ghettona che l’avvolge tutta, possibilmente in neoprene o simili. E il cappellino imbottito che rende praticamente sordi. Gli occhiali anche se c’è nebbia da tagliare con il coltello altrimenti ti si ghiaccia la cornea. E i guanti? E lo scaldacollo? Insomma alla fine di tutto ciò sei già sfinito.

In velodromo d’inverno è tutto più facile, anche scegliere il treno giusto e andare alla propria velocità

Allora non c’è che una soluzione. Il rullo. Se poi hai il modello top che puoi connettere a Zwift, il social che piazza il tuo avatar dentro a corse immaginarie a Londra o a Watopia, ecco che puoi effettivamente superare quella spiacevole sensazione claustrofobica che i rulli normali ti regalano mettendo a dura prova la tua forza di volontà. Altrimenti… benvenuti a Noia City.

C’è poco da fare. Per sconfiggere quella sconfortante sensazione che stai facendo troppo poco in un tempo infinito non c’è che la forza della mente. Ommmmm… L’idea è di immergersi in una proto-meditazione fai da te, che forse qualcosa di zen ce l’ha anche senza maestri che te la spiegano.

Già il fatto che la pedalata è rotonda aiuta molto. Poi è fondamentale imporsi dei traguardi. Se si ha un bel Garmin l’impostazione indoor permette di vedere, in base al sensore di velocità sulla ruota posteriore, quanti km stai affrontando. Bene. Per chi spinge sui rulli non c’è traguardo più accattivante.

I rulli hanno uno svantaggio: la perniciosa ossessione per il “numerino” sul Garmin

Nel mio caso scatta la competizione del record personale. La volta scorsa ho raggiunto 40 km? Questa volta saranno 45! L’importante è lasciarsi prendere dall’ossessione e superare i primi 10 è già un primo giro di boa molto importante. Senza Londra e Watopia in 3D davanti agli occhi è poi allora importante scegliere il programma tv giusto. Qualcosa che distolga la testa dal frullare continuo, che dopo un po’ fa sentire la sella dura come il marmo. Ecco allora che io scelgo una bella replica di Masterchef, dove la Mistery Box interviene magicamente in soccorso, portando via la testa. E la frusta che affronta la maionese di uova di quaglia sembra proprio il frullare senza tregua sui pedali. Così anche per brevi momenti sparisce l’ossessione per il numerino pazzo: sì faccio due ore… sì adesso raggiungo le 500 Kcal… non posso smettere a 39,8 km…

Insomma, ogni valore numerico sul computerino porta necessariamente a ingabbiarsi sempre di più nell’idea ossessiva di un obiettivo. Un po’ come quando ci si scopre a camminare tra una riga e l’altra delle strisce pedonali. Non è un bel segno. La bici è gioia, divertimento, aria fresca al cervello. Se diventi schiavo di un numero allora fuggire è imperativo.

L’aria aperta non ha equali!

 

 

E fuga fu. Per me coincide con la pausa pranzo. A volte basta così poco per tornare a immaginarsi in un itinererio lungo. Basta uno stacco di meno di un’ora. L’importante è uscire. La fortuna di avere vicino all’ufficio una lunga ciclabile, quella del Naviglio Grande, non può essere ignorata. E così si parte a manetta. Sole, freddo, cuore a mille, polmoni… ogni singola molecola sembra impazzita di felicità. Dov’è finito il numerino sul Garmin? Non pervenuto. C’è l’asfalto che scorre sotto alle ruote. Tutto il resto… è noia!

Fonte foto: Laura Magni

 

Eravamo 3 cicliste (al bar)

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So già che questo breve articolo ai più sembrerà surreale, ma, spiego, è semplicemente il tentativo di descrivere quell’atmosfera particolare che si crea all’Upcycle quando ci si trova tra amiche-cicliste.

Atmosfera che subito, fin da quando ti siedi al tuo posto e allunghi l’avambraccio sulle tovagliette di carta, ti pare già sfrenatamente libera. Come se tutte le situazioni di lavoro e/o di gestione della famiglia, che ti hanno inseguita durante la lunga giornata, neppure fossero un Bartali al Tour dopo l’attentato a Togliatti, si dissolvessero di colpo. Pufff… cervello e cuore diventano elastici come polmoni e iniziano finalmente a respirare.

L’ingresso dell’Upcycle (quando una delle amiche aspetta le altre due in ritardo)

Ieri sera così, con Sarah e Iryna, amiche cicliste e amiche a prescindere dalle due ruote, ci siamo immerse nella più divertente delle randonnée. Quella che per quasi tre ore filate si mirura in bicchieri di Arneis anziché in km.

Non fraintendiamo però… vero che chi va in bici spesso apprezza il nettare degli dei, ma se si regge bene quanto noi, non c’è problema. E a confermare l’allegra vocazione alcolica di noi ciclisti ci pensa anche la “RandoGaina“, titolo inequivocabile per i milanesi doc, di cui ci parla Barbara Bonori, che con Roberto Peia gestisce l’Upcycle. Sarà il prossimo 24 marzo e, visti i tre percorsi e la motivazione dell’ASD organizzatrice Cassinis, promette grandi emozioni. Mi sa che proverò a metterla in agenda.

A destra Barbara Bonori e Roberto Peia con Paolo Savoldelli

Insomma a fine serata ero più allegra e spensierata neppure avessi fatto 120 km in Brianza e così mi sono divertita a mettere nero su bianco i 6 buoni motivi che rendono speciale un aperitivo tra amiche-cicliste all’Upcycle.

Uno.
Perché sei con le persone giuste nel posto giusto e puoi quindi parlare di pacchi pignoni e percentuali di salite senza che nessun freno sfiori mai le tue ruote.

Due.
Perché inevitabilmente la bici diventa metafora di vita e scopri parlandone quanto fa bene alla tua testa.

Tre.
Perché si può parlare liberamente di culi, selle giuste, tette e bretelle sbagliate senza neppure essere un maschio alfa.

Quattro.
Perché i piattini che offre l’Upcycle sono perfetti per mandare all’aria le diete rigorose di chi si allena, ma sono così bike-friendly che non ti fanno sentire in colpa.

I piatti “nordici” dell’Upcycle che ti fanno sentire un po’ norvegese

Cinque.
Perché poi i vicini seduti accanto a te nel lungo tavolone sociale entrano nel tuo gruppo e per un po’ “tirano” la conversazione verso ritmi e contenuti diversi. E qualche fetta della loro torta di compleanno scivola generosamente nel tuo piatto.

All’Upcycle tutto parla di ciclismo…

Sei.
Perché alzi la testa e vedi maglie da ciclismo di ogni foggia e colore e biciclette eroiche appese in ogni dove e allora ti senti “a casa”, un po’ come al Ghisallo. Probabilmente ad un ciclista la visione di cimeli del suo mondo scatena le endorfine come una barra di cioccolato fondente.

E c’è infine un ultimo, buon motivo per replicare i nostri aperitivi fra amiche-cicliste. È senz’altro l’irresistibile piacere della grande risata liberatoria che, come un’onda impetuosa, sommerge le confidenze più delicate e le irrora di positivo, poetico, emozionante senso della realtà.

Fonte foto: Instagram e Facebook di Upcycle e Barbara Bonori – Iryna Bukhanska – Sarah Cinquini – Laura Magni

MiRando 2019. Tra steppe padane, cosacche e gomme bucate

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Quando un’esperienza è positiva, perché non ripeterla? Nel ciclismo è facile creare delle “tradizioni” personali, delle consuetudini che vincono sull’idea della novità con la forza di una promessa mantenuta.

Così è la MiRando, la randonnée che scendendo dal Naviglio Pavese, raggiunge il Ticino, nonché Pavia, lo risale un minimo giusto prima del ristoro nella imprescindibile Trattoria da Pasquale della sciura Rachele, scavalca scalpitando sulle vecchie assi il ponte di barche di Bereguardo, raggiunge il Naviglio omonimo fino all’approdo di Abbiategrasso e… via! Di nuovo a Milano a braccetto del Grande.

Insomma un itinerario perfetto che già avevo voluto replicare in solitaria d’estate vedi articolo. Perché ero troppo curiosa di testarmi senza l’aria gelida che nella mia prima esperienza mi aveva congelato gli alveoli.

Ma tradizione vuole, al di là degli esperimenti, che la vera MiRando, quella a cui ci si iscrive in centinaia, sia compiuta con Iryna e Armando. Fa anche rima. Questa volta partiamo insieme da piazza Maciachini. Ah no… non è più tempo di avventure e casualità. Si parte e si arriva insieme e, nel mio caso, si gioca finalmente la carta della velocità.

Pochi minuti ad aspettarsi in Piazza Maciachini e… Armando è già congelato!

 

Il clima però tutto sommato è mite. Al punto che decido di indossare la maglia estiva regalata al Cosmobike dagli amici di PH Apparel. Sotto c’è qualche strato, ma era irresistibile la voglia di mettere qualcosa di nuovo, come il 1° dell’anno. Primi 100 km del 2019. Vanno festeggiati. Ormai questo è un numero che non mi spaventa più, dopo tante e tante prove superate, compresa la Randolario da 190 km che quest’anno sarà a inizio stagione, in marzo. E se “ce la farò?” l’anno scorso era la domanda che mi risuonava in testa ogni secondo come un mantra dubbioso, ecco che quest’anno mi chiedevo “a quale media riuscirò a farla?“.

Siamo tra i primi a partire. La via antistante la partenza è così gremita che non si riesce a tornare indietro e mettersi in coda. E poi ormai forse sono un po’ “vip” e così, complice l’invito di Cosimo, l’organizzatore di questa splendida manifestazione, timbro insieme a Iryna e Armando e si va.
Sono fantastiche le partenze “alla francese”. Nessuno che ti soffia sul collo, nessuno che ti pettina le orecchie in avanti passando come un forsennato, nessuno che inizia a correre come se non ci fosse un domani. È tutto elegantemente un “prima Lei, ma ci mancherebbe, passi pure, prego, grazie, pardon“. Così quasi non ti viene la cattiveria e precipiti nel ritmo della scampagnata. Eh no! E se ne accorge Armando che subito inizia a tirare. Deve togliersi di dosso un po’ di freddo e così attacca a 32 km/h. Ohibò inizio a preoccuparmi. Lo so che è tutta psicologia, o quasi, ma io ho bisogno di progressioni più lente. Soprattutto d’inverno. Quindi ecco che ritorna improvvisa la vecchia e cara domandina: “ce la farò?“.

I cari vecchi trucchi del ciclista esperto: Armando ha il giornale anti-vento!

Pare di sì. E la cosa stupefacente, che conferma la velocità degna di rispetto praticata lungo il Pavese, è che non ci raggiunge nessuno. Per qualche km siamo gli apripista ed è solo poco prima del ponte che attraversa il naviglio che uno sparuto gruppetto che sembra composto da lupi solitari ci raggiunge, per poi mollarci, forse per errore, alla svolta del percorso breve. Mah… il breve quelli là? Finiranno tutto in un’oretta… Ma non c’è il tempo di preoccuparsi dell’itinerario altrui. Con lo sguardo sul Garmin eccomi a contemplare 35-36 km/h di velocità. E la media supera i 32!

Dura minga” sento improvvisa la vocina di Calindri, quello del Cynar, che in un archeo-spot visto in qualche teca Rai, sembra voler svolgere la funzione dell’ammazza-trionfi, quello che all’imperatore sulla biga reggeva sì l’alloro sulla testa, ma gli sussurrava anche un impietoso “ricordati che devi morire“. Brrr… tocchiamo ferro, anzi no, carbonio.

E così sono proprio curiosa di vedere se quest’anno risalendo il Ticino ci sarà bisogno delle sciabolate (sul sedere) di Iryna per alleggerire le gambe nella lieve salita sul letto d’asfalto sgarrupato. Così, come in un piatto di Masterchef, la via sul Ticino è impiattata con rustica raffinatezza e, questa volta, pare digeribilissima. Perfetto antipasto prima della panada della sciura Rachele. Mi sa che prima o poi gliela chiedo anche nelle gite d’estate, quando vado da lei a mangiare rane e bottine.

Il rito della panada bollente questa volta si consuma insieme ad Iryna che quest’anno si è decisa a provarla (e apprezzarla!)

Questa volta siamo tra i primi, non c’è ancora nessuno e i piatti di panada sono lì a guardarci appena scodellati e roventi con una consistenza più convitamente compatta dell’altra volta. Va giù saporita che è un piacere. Ne mangerei il triplo, ma l’arrivo in massa del gruppone (di colpo un centinaio di ciclisti affollano il cortile) ci fa ripartire immediatamente. Un po’ ce la tiriamo da snob. Siamo il corpo d’élite questa volta. E così, mentre si risale faticosamente da Bereguardo verso Abbiategrasso ecco che inizio a sentirmi un po’ stanchina, come direbbe Forrest Gump. Ci voleva doppia dose di panada… mi dico. Barretta? Sì ci sta. Da ferma però. Odio masticare con il fiatone. Ed effettivamente i polmoni sono un po’ intirizziti. Il cuore è decisamente alto. Insomma qualcosa mi dice che devo rallentare un po’. Così nella ripresa sento sulla schiena una mano amichevole che mi dà la fatidica spintarella. È quella di Gianni, compagno occasionale, maglia gialla di Cassago Magnago.

Ci voleva proprio. Perché Abbiategrasso sembra non arrivare mai e il vento è traverso e leggermente contro. Se volessi sfruttare appieno la scia di Armando dovrei pedalare “dentro” al naviglio. Per giunta desolatamente secco. Neppure il conforto delle chiare fresche e dolci acque.

L’indispensabile pausa-barretta-Enervit che fa sempre la differenza quando s’inizia ad accusare un po’ di fame…

Così è una vera liberazione questa volta il giro di boa verso Milano. E mi dispiace di aver superato senza accorgermene il secondo ristoro, ma c’è un po’ l’urgenza di farla finita presto.

Com’é come non é, ed è incredibile quanto ci sia magia nel ciclismo, appena si cambia direzione e prospettiva, ecco che le gambe ricominciano a frullare senza sforzo. O sarà il vento? Mah… fatto sta che superato Abbiategrasso si riprende alla grande. E sarà una galoppata vertiginosa fino alla fine, comprese le gimkane tra i podisti che ti urlano di tuttovai piano!” “vai piano tua madre!” e via di questi scambi amorosi, fino al momento da paura quando uno di loro che si era allargato troppo verso di noi toglie la gamba dalla mia ruota come una lucertola che riesce a salvarsi la coda in last minute. Brivido!

Infine approdiamo tranquilli al traguardo dove ci aspettano sparuti gruppetti di ciclisti, per lo più quelli che hanno fatto la “breve” , comprese due amiche, Claudia e Anna, reduci da influenze. Il percorso ridotto si conferma ancora un ottimo debutto di stagione per chi non ha avuto tempo e modo di tenersi allenato d’inverno.

Brindisi con birrette e l’incontro con Claudia e Anna al traguardo

E quindi è bello tirarsela un po’ con il nostro “lungo” e farsi una birretta tutt’altro che invernale. Avevo fantasticato di attraversare la steppa con Iryna, due cosacche alla riscossa con il sottofondo musicale del vecchio sceneggiato Rai di Michele Strogoff, ed eccoci invece a brindare in un’atmosfera balneare doc.

Fantasie cosacche la sera prima della MiRando!

Ma mancava ancora il colpo di teatro. Torniamo a casa? Sì ma… ho forato! Da ferma? Pare di sì… incredibile! Le tradizioni vanno rispettate fino in fondo e anche l’anno scoso avevo forato nel finale, intorno a Corsico. Ma questa volta da ferma è proprio un record! Siamo vicini al banchetto del Buracia Team, che propone il kit di riparazione che, elegantissimo, s’innesta all’interno di una finta borraccia. E più di un sospettino allora non può che cadere su di loro. Che sia tutta una mossa pubblicitaria? Me li vedo, quatti quatti, con un cattivissimo punteruolo, ad approfittare della mia povera gomma incustodita mentre bevo, ignara, la mia bella birretta.

Va bene ragazzi, cosa non si fa per un po’ di visibilità, vi perdono! Tanto più che non faccio neppure in tempo a sganciarla che, con uno scatto da pistard, Iryna è già lì a togliermi il copertone. Del resto Buracia è il suo team. Ecco quindi che debutta la cosacca-gommista, plurifotografata mentre è in azione con la turbo-pompetta griffata. In men che un amen la mia bici è pronta per riportarmi a casa. E Iryna ancora una volta ha saputo stupirmi con la sua incredibile velocità… nel sistemarmi la ruota. Strava non contempla ancora questo tipo di performance? Propongo subito il QOM del cambio della camera d’aria!

Il kit di riparazione del Buracia team e Iryna in azione al cambio della camera d’aria.

 

Gianni di Cassago Magnago che mi ha dato qualche gradita spintarella sul Naviglio di Bereguardo
E infine… stanca ma felice a casa!

Pedalando in velodromo con Moser

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Io che pedalo in scia a Francesco Moser? Sì, proprio vero. Al Velodromo Parco Nord dateciPista anche i desideri più onirici trovano sostanza. Come se una stampante 3D potesse plasmare i sogni rendendoli finalmente reali. Senza scarti ed eccedenze. Taaac. Si va a 40 km/h e sembra di essere leggeri come piume. In scia a Moser.

Francesco Moser (il terzo in maglia azzurra) in azione al Velodromo Parco Nord dateciPista

Che pedalata elegante…” esclama Omar esaltato dalla visione di un Moser che proprio lì, a un paio di metri, pedala come uno di noi.
L’occasione di ieri è stata magica. Nata non si sa bene come, ma si può stare certi che c’è lo zampino del nostro presidente Mario Bodei, nel giro di poche ore le voci si rincorrevano sui social di dateciPista. Sì sì, Moser passa a trovarci.

Così ecco che in un martedì qualsiasi di febbraio improvvisamente molti uffici, tra le 11 e le 12, si sono svuotati per improvvisi e inderogabili impegni. Tutti a convergere al Velodromo Parco Nord, ombelico del mondo. E a conferma dell’internazionalità del luogo ormai topico per i tanti milanesi – anche d’adozione – appassionati di ciclismo, c’è Kapila che ha portato in dono al campione la maglia della nazionale di ciclismo del suo Paese d’origine, lo Sri Lanka.

Le immancabili foto di rito. Da sinistra Francesco Papa, uno dei più autorevoli volontari di dateciPista, Giuseppe Antonio Lardieri, Presidente Municipio 9 e, nella foto accanto, sempre con Moser, Francesco Centrone, esperto di spinning della palestra-sponsor della pista GB Fitness

Tutti in trepidante attesa, tutti ad aspettare ad aspettare il campione dalle ghiacciate 9.00 del mattino con la classica sgambatina di riscaldamento in attesa di provare lo scatto con lui.
Nel mio caso invece il riscaldamento si è compiuto tra casa, ufficio e velodromo… Lo sapevo che lasciare le scarpette da ciclismo in studio non sarebbe stata una buona idea… e così eccomi a sfrecciare nel traffico per cambiarmi al volo e ripartire alla volta del parco. Quasi 20 km d’un fiato per arrivare puntuale e filmare l’ingresso in pista del campione.

Mario Bodei, Presidente di dateciPista pedala con Francesco Moser. Si parla di come illuminare la pista… magari per una 24 ore…

Con il muscolo già caldo sono quindi scalpitante in attesa di provare a stare in gruppo. Perché sì, l’idea di girare con un campione è proprio esaltante. Ad ogni pedalata immagini quanti giri hanno fatto le sue gambe, quante tappe, quante vittorie, quante biciclette si sono conformate alla sua potenza. E pedalare in questa scia è come ricevere qualche spora di quella gloria che fa di Moser uno dei campioni più amati di sempre.

Del resto quando ero piccola e il ciclismo lo filavo poco, non perché preferivo pettinare le bambole, ma perché l’immagine dei ciclisti non era proprio corrispondente, per abbigliamento e fisico, ai miei canoni estetici, ecco che invece Moser, con quel suo nome rapido come una volata e la sua statuaria bellezza, era già icona assoluta. E quindi tra le biglie nella sabbia non si poteva non averlo. Era l’unico possibile. L’unico riconoscibile. L’unico davvero forte con cui potevi anche battere i maschi.

Non potevo esimermi dal realizzare una foto con Moser, qui insieme a Mario Bodei, Presidente di dateciPista. Nella foto a destra c’è anche Tito Boeri, Presidente Inps e grande amico del campione

Allora eccomi alla ricerca del ritmo giusto, d’inverno quando gli alveoli tardano a schiudersi, nel gruppetto che, sfrondata la folla iniziale, corre con Moser dentro alla linea azzurra. Quella che delimita l’élite della velocità. Andiamo a 40/43… oddìo anche 46 km/h. Concreti e precisi. Perché il fluido magico del campione tutto contamina e tutto rende facile. L’aria è scintillante e vertiginosa. Siamo tutti nella coda della sua cometa e pedaliamo all’unisono. OP! OP! si esclama alle curve per avvisare che sta passando il treno di Moser. E i ciclisti fanno ala come i mari al passaggio di Mosè. Del resto un po’ di assonanza al nome c’è…

Giri su giri sembra non fermarsi più. Tuttavia dopo le stelle si ritorna all’umanità del ciclismo. Ovvero quello che ti fa innamorare veramente di questo sport. Perché il divino è assoluto ed eroico, ma l’umano è irresistibile. Proprio come il salame che generosamente viene tagliato dai volontari tra bicchieri di rosso e di pregiato spumante Moser, quello che il campione produce nelle sue valli.
Barbera e champagne, il ciclismo è così. Cin cin campione! Torna presto a pedalare con noi!

Foto di gruppo di rito insieme al campione… non ci si stava tutti nella foto!

Ciclismo e stile: la pista è una sfilata di moda?

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Che i ciclisti abbiano un’estetica tutta loro e un canone di eleganza sicuramente discutibile, ma altrettanto indiscutibilmente caratterizzato da mille fisime e convinzioni, è cosa ovvia.

Basta pensare a ciò che si vede in una crono, ad esempio quella famosa al Giro d’Italia in cui Froome sfoggiava una maglia le cui spalle erano punteggiate da tanti pois in rilievo. Arrivarono centinaia di telefonate in Rai. I forum impazzivano… di che si trattava? Il produttore della maglia, Santini, dichiarò che era un ultimo ritrovato in fatto di aerodinamicità. Funzionava? Chissà. Sta di fatto che i soliti lividi detrattori ravvisarono gli altrettanto soliti elementi di scorrettezza. Froome sarebbe stato avvantaggiato, avrebbe potuto vincere grazie a quella strana maglia.

Le immagini dei gruppi di questo articolo sono tratte da un commovente video di Rapha, dedicato alle divise customizzate dalle squadre

Ecco. Il ciclista è così. Abituato a gestire uno “strumento” tecnico complesso quale è la bicicletta, non riesce a disconnettere lo sguardo da ingegnere neppure quando si pavoneggia davanti allo specchio alla ricerca della stessa aerodinamicità anche nel suo corpo.

Può esserci inesorabilmente un po’ di pancia, magari un principio di tenera trippetta si è consolidata sui fianchi e il sederino non è più quello dei vent’anni, ma, dopo tante selle – e dopo tante lasagne – ecco che presenta due belle guanciotte tonde e rilassate.

Un altro frame tratto dal video nel sito di Rapha

Quindi che si fa? Ma certo, ci si strizza in una bella tutina aerodinamica, realizzata con gli ultimi ritrovati in fatto di tessuti. Un capolavoro di tagli a vivo e composizioni elastiche-traspiranti-contenitive in grado di trasformare qualsiasi corpo in una splendida macchina performante. Crono sei mia!

Ma oltre ai materiali, attenzione, c’è di più. C’è l’esoterica dimensione del colore.
E in questo caso basta guardarsi in giro una domenica. O dare un’occhiata attenta ai tanti colori che convivono nel vortice concentrico della pista al Velodromo Parco Nord. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Il colore è protagonista.
E con l’arrivo della primavera? Ecco che i più sobri neri delle tutine termiche piano piano scoprono lembi di pelle e si riappropriano delle amate tonalità sgargianti di cui i ciclisti sono innamorati.
Sì perché il colore sembra attrarre il ciclista come il miele l’orso.

E allora ecco che fanno capolino le combinazioni più composite. Blu, gialli, rossi, viola, verdi… ognuno ha la sua tutina colorata? No no… spesso le diverse tinte convivono tutte insieme in un unico sgargiante (o esilarante) completino.
Effettivamente è sempre stato così. Il rapporto tra ciclista e colore nella maggior parte dei casi sta come tra un adolescente bulimico e una pasticceria. Come i dolci anche i colori sembrano non bastare mai.

Uno dei gruppi che appasre nel video dedicato alle customizzazioni di Rapha. Questi ragazzi sono di Amsterdam

Del resto ho ancora stampato il ricordo del mio papà che ogni domenica rischiava il divorzio. A causa delle lunghe uscite in bici con gli amici? Oh no… a causa del look “seducente” che ispirava a mia mamma… la fuga!

E se accostare maglia, pantalone, bicicletta, scarpe e cappellino a volte sembra complicato come compilare il 740, ecco che alcuni sembrano voler sfogare nella tutina tutto il colore che hanno sempre voluto indossare e che, facendo un lavoro serio, non si sono mai potuti permettere. Così si vedono in giro sfrecciare tanti baccelli verde-pisello oppure dei sacramenti in giallo che più che l’energia evocano la polenta e infine ecco l’orgoglioso rosa, ovvero il colore che segretamente ti piace, ma, non essendo una bambina, non hai mai potuto indossare. In bici puoi. In bici il rosa è la “maglia rosa”.

Il divertente configuratore di Giessegi, l’azienda di Simone Fraccaro, ex gregario di Francesco Moser, con cui verranno realizzate le divise di dateciPista, l’ASD dei volontari del Velodromo Parco Nord

 

 

Ma non è finita qui. Per le ASD la divisa coordinata da sfoggiare nelle uscite di gruppo è talmente imperativa che si cerca di realizzarle ad ogni costo, anche se le casse piangono. Così ecco che l’imprenditore del gruppo mette mano al portafoglio e generosamente elargisce un contributo a fronte di un bel marchio stampato sulla divisa. E se c’è la colletta e tra i generosi compare anche il titolare delle pompe funebri? No problem. Pecunia non olet. Il suo marchio sarà scaramantico come un quadrifoglio. Resta poi il problema della grafica… ma i più non fanno caso a questi dettagli da “fighetti”. E allora ecco che il marchio degli anni ’80 disegnato dal copista del paese quando forse aveva alzato un po’ il gomito si fa largo con i suoi tanti spigoli asimmetrici nella convivenza forzata tra font e scrittine che non dovrebbero neppure convivere nell’hard disk di un computer. Insomma… è la tutina del ciclista, bellezza!

Si potrà sperare in una rivoluzione in questo campo? In attesa di trovare la Chanel dei ciclisti e liberarli finalmente dalle costrizioni di loghi raccapriccianti e colori devastanti, sono personalmente al lavoro sulla grafica della nuova divisa dell’ASD Datecipista. E allora… “Io speriamo che me la cavo”!

Il bozzetto realizzato per l’ASD Datecipista. ….Vi piace?

8 marzo: un giro in bicicletta fra (gentil)uomini

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Sì ho proprio scritto “fra” e non “con”. Perché l’essenza di questo articolo è nella natura trasversale e densa di significato di questa semplice preposizione.

In tempi in cui, va detto, sembra che le conquiste delle nostre nonne e delle nostre madri s’infrangano su un’insorgente nuova ondata di sessismo, quando ancora il salario di una donna è spesso inferiore rispetto a quello del collega maschio – che fa le stesse cose – o c’è la promessa di un “pezzo di terra” per chi fa il terzo figlio, come se la maternità fosse un mezzo per produrre braccia per l’agricoltura o carne da cannone, ecco che, passato l’ennesimo e forse inutile 8 marzo non fa mai male soffermarsi su certi temi.

Ma, e per fortuna c’è un “ma”, esistono ancora territori di inaspettata parità. Sorprendenti perché non te li aspetti. Parliamo infatti di ciclismo. Uno sport che comunque vede la differenza fra uomo e donna. Inutile far finta di nulla… le nostre gambette femminili non sono certo in grado di sviluppare quella muscolatura che permette di fare il record dell’ora con 54,526 km e tuttavia, anche se quello femminile ha una differenza di oltre 6 km, il ciclismo, che poi è in un certo senso anche gioco di squadra, non solo consente di fare uscite miste, ma addirittura gare tutti insieme, senza distinzioni di genere (ad esempio le crono).

Naturalmente è il ciclismo amatoriale, quello praticato dalla gente comune. Ma è proprio questo il bello. Mentre il calcetto, per esempio, rimane gioco rigorosamente diviso tra generi anche se si pratica fra amici nel week end, il ciclismo ha la facoltà di produrre spesso gruppi misti, con uomini e donne. Certo. Noi cicliste siamo ancora una minoranza. Ma ci siamo. E lottiamo insieme a voi.

Amicizia e follia nel ciclismo. Chi se li scorda i due che in Israele al Giro d’Italia hanno scortato la carovana rosa? (frame RAI)

Così è stata una bella conferma l’uscita di domenica scorsa. Il messaggino d’invito di Alfredo Zini, ristoratore generazionalmente vicino al ciclismo e consigliere FCI, mi sorprendeva proprio quando incominciava a ronzarmi in testa la voglia di riaffrontare la Brianza. Erano mesi, da un ultimo episodio in novembre segnato da una bella cotta, che non osavo più metterci ruota… e così eccomi all’appuntamento nel suo ristorante, Al Tronco. Un posto dove spesso si conoscono ciclisti che hanno fatto la storia e che la fanno ancora. Ore 9.00. Un orario gentile e rassicurante, quindi. Non la levataccia all’alba che, già di per sé, con il suo carico di solitudine, ti fa sentire più debole.

E il gruppetto si profila interessante perché sarà con noi Riccardo Magrini, il “Magro”, due amici di Alfredo, Michele e Umberto, che riconosco come parte dell’ASD Equilibrio Urbano, che è anche il mio negozio-meccanico preferito, e… ci sarà persino un Generale dei bersaglieri. Anzi, dovrei dire “il” Generale. Perché scopro che è la stessa persona di cui mi ha sempre parlato Mario Bodei, presidente di dateciPista. Proprio lui, il Generale Angelo Giacobino della ex caserma Mameli dei Bersaglieri di Viale Suzzani, che ha fatto tanto per il ciclismo attirando in squadra i migliori talenti.

Ecco il gruppo quasi al completo occasionalmente fermo ad una rotonda con il Magro (Riccardo Magrini) a sinistra, Alfredo Zini al centro e, nella foto a destra, con il Generale Angelo Giacobino

E quindi sapete che c’è? Con queste premesse, niente ansia da prestazione. Sì, perché siamo tra “noi” uomini e allora la competizione s’infrange sulla spiaggia confortevolissima della differenza di genere. È forse questa l’alchimia perfetta. Beata fra gli uomini e, al tempo stesso, percepita come una di loro, con due braccia, due gambe, un cuore (o due?) e due polmoni.

La mano del “Magro” sulla bassa schiena mentre spingo sulla Sirtori? Molto gradita e zero maliziosa. Ci voleva proprio. E il consiglio che segue è ancora più apprezzato: “dopo la spinta continua a pedalare…”. Giusto. Non aveva mica senso infatti spegnere la propulsione nella beata – e un po’ idiota – inerzia. La trappola in cui ho rischiato di cadere. Su su muoviamo le gambine, forza!

Così, via via che i km passano, superati già i 60, capita anche di sentire scorrere copiosa l’energia. Qualcuno mi sta forse spingendo? Come mai non faccio fatica? Ed è bello allora attaccare nei momenti in cui sento che finalmente le gambe si sbloccano, o meglio, sbocciano in vista della primavera.

Un diverso modo di uscire in gruppo

Avevo infatti qualche timore sulla riconquista della Brianza.
Non posso essere la ciclista che si prepara con tabelle ed esercizi durante l’inverno. Non ne ho il tempo. Devo accontentarmi di scommettere sul mio dna e sulla mia capacità di immaginarmi strepitosamente talentuosa, così da crederci veramente e portare il sogno laggiù, fino ai pedali.
Per immaginarsi, per percepirsi forti, non c’è niente di meglio che sentirsi uguali agli altri. Ed è proprio questo che ho provato nella mia prima Brianza di stagione fra uomini. Anch’io sono stata, per una volta, ufficiale e gentiluomo.

(La foto della cover è tratta dal telefilm HBO “Tour de Pharmacy”, irriverente commedia dedicata alle pazzie del doping negli anni ’80)

Cadere (e rialzarsi) in bicicletta

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Che i nostri destini ciclistici fossero vagamente intrecciati dopo l’esoterico-massonica riunione all’Upcycle, ovvero l’incontro delle tre amiche cicliste al bar, ne avevo sentore. Ed ora mi spiego anche perché il tempo era mancato la scorsa settimana per scrivere il consueto articolo su Fashion Times… mancava la mia caduta!

Sì perché le mie amiche cicliste, Sarah e Iryna, erano state protagoniste nei giorni scorsi di due incidenti. Molto diversi per natura ed esito. Ma sempre di cadute si trattava.
Sarah ahinoi in questo momento sta combattendo con il suo ginocchio. La neve traditrice di fine stagione, quella che più bagnata tende a bloccare il piede sullo sci, ha creato una torsione fatale ai legamenti laterali. Non la bicicletta quindi, ma proprio quello sport considerato da sempre il perfetto complemento invernale per l’allenamento del ciclista. Sci e ciclismo. Stessi muscoli, stesso brivido per la velocità, coordinamento e testa. In passato soprattutto, quando le stagioni dei pro non erano così infinite, sciatori e ciclisti si scambiavano gli strumenti del mestiere per allenarsi fuori stagione. Oggi non è più così, ma è innegabile che anch’io, nel mio piccolissimo, non avrei potuto spingere così forte sui pedali, nonostante un avvio dei lavori tardivo, se non avessi iniziato a zampettare sulla neve con i miei sciettini di legno all’età di 2 anni e mezzo. Così i muscoli si sono sviluppati senza che me ne accorgessi… per ritrovarli poi pronti a ripartire in età matura.

Sarah era all’inizio della stagione e al top della forma. Tanti sacrifici, compresi gli odiati rulli per ore e ore in casa, avevano prodotto quei risultati che l’avrebbero senz’altro portata ai vertici dei suoi obiettivi di appassionata ultracyclist, da poco parte del team dei Folletti Verdi, specializzati proprio in questa faticosa ed esaltante disciplina dei chilometri extra size.


Ora la sua perseveranza è al servizio di un altro obiettivo: il recupero del ginocchio. Impresa nobile almeno quanto la D+ Ultracycling Dolomitica. Se non di più. Ed io non ho dubbi che tornerà più forte di prima, perché la testa di un ciclista è proprio fatta per queste cose. Non spaventano le mete lontane. Si raggiungono con tenacia, pazienza, perseveranza e sano ottimismo. Tirando fuori risorse che non si pensava di avere. Forza Sarah! La stagione è appena iniziata e sarai ancora in tempo per concluderla alla grande, con coppe e medaglie che avranno valore doppio, perché conterranno anche tutti quei km che non avrai potuto fare per allenarti e che peseranno di più di quelli fatti. Avranno quel valore spirituale che daranno maggiore spinta alle tue gambe e tutto questo, lo sai già, vale più di mille ore sui rulli.

E Iryna? Se quella di Sarah è stata un caduta nel percorso, Iryna è caduta nel pieno di una corsa. In una della tante crono che sta affrontando anche per prepararsi ai prossimi mondiali che l’attendono in Polonia.
La dinamica è da brividi… com’è giusto che sia con Iryna, che se la gioca alla grande, unica donna di una squadra a quattro fortissima. “Eravamo lì per vincere…” E cosa è quindi successo? “Tutta colpa di una stupida borraccia piatta…” mi spiega Iryna. Sì perché le borracce da crono, dato che uno che corre a quelle velocità (nel caso di Iryna a 50 km/h) e non ha certo il tempo di tirare su con i denti il consueto tappino, sono in teoria concepite per agevolare la sorsata.


Bene. Ma Iryna, mentre in scia dietro ai tre scatenati corridori spingeva forte sui pedali a velocità che poche donne raggiungono, improvvisamente colta dalla sete, anziché placarla con le chiare, fresche e dolci acque, si ritrova a ingaggiare un’impari lotta con il tappino della borraccia da crono, rimasto inspiegabilmente a ballarle tra le dita. A quelle velocità è un attimo. In un amen la ruota del socio davanti appare lontana, lontanissima.
E dio solo sa quanto è dura perdere la ruota in una crono. È come perdere l’amore nella canzone di Massimo Ranieri. Così, gettata via la riottosa borraccia (almeno, Iryna, avevi bevuto?) arriva la spinta fatale, il colpo di reni che sbilancia. Perché il motore di Iryna, quando è al massimo, fa davvero paura. E a quanto pare fa paura anche a tutti quei suoi incolpevoli muscoli collaterali che, terrorizzati dalla forza delle sue gambe, non sono riusciti a indirizzarne bene la potenza e, sopraffatti dalla sorpresa, hanno gettato la spugna. Massì Iryna… adesso si cade, le avranno sussurrato rassegnati all’orecchio.

Così Iryna si è ritrovata a percorrere alcuni metri sull’asfalto non più leggera sulle ruote, ma con il gomito, la spalla e la coscia destra più altri svariati punti del corpo che in questi casi tendono a rivelarsi al ciclista il giorno dopo, quando ci si scopre allo specchio maculati come un giaguaro.
Ed è qui però che viene fuori lo spirito della campionessa. Il gomito è blu? Si vedrà dopo. Fa male il piede? Devo spingere sul pedale lo stesso. Iryna balza in sella e, forte di quei grandiosi 45 secondi di vantaggio che la squadra aveva già messo in cascina, riparte alla grande e… podio raggiunto! Un bel terzo posto che non vale oro, ma platino!

E veniamo alle comiche finali. Tocca a me. Manca la mia caduta infatti. E, a dire il vero, a parte una mezza scivolata nel primo giorno in cui ho indossato le tacchette, mai mi ero ritrovata sull’asfalto dopo un bell’inaspettato volo. È la mia prima caduta in bicicletta.
Nella testa ho l’immagine del montoncino nero dalle grandi e sproporzionate corna di quello spot tv che ha imperversato tutto l’inverno con le note schitarrate di Lenny Kravitz. “Born confident” recita l’azzeccatissimo headline. Nato sicuro dei propri mezzi. E così anch’io, nel gregge del mio gruppetto domenicale, forte di tutte le mie certezze, mi sono ritrovata a incornare in pieno uno spartitraffico bello rosso come il drappo a plaza del toro.

Sì perché in quel di Monza l’ideona è stata quella di “tutelare” i ciclisti impedendo alle macchine di entrare nella ciclabile. Ma tra il gruppo e la curva mezza cieca ecco che ho ancora stampata negli occhi la scena della mia cornuta ruota che impatta in pieno sul rosso oggetto plastico. Inevitabile. Così com’è inevitabile il frullare di braccia e gambe, il corpo che non pesa, l’impatto sull’asfalto che ancora ti credi un astronauta privo di gravità, il colpetto di rimbalzo della testa, placcato in pieno dal casco, e lo scatto in piedi immediatamente dopo, con le proverbiali molle.

Con viva e vibrante soddisfazione mi accorgo che sono perfettamente in me, tranquilla. Senza tremito né nella voce né nelle mani. Sono anzi io a tranquillizzare i miei soci del giro di domenica. Vedete? È tutto a posto? Notate abrasioni oltre a quelle che vedo io? Tuta strappata? Non vorrei mai replicare quelle incresciose scene dei professionisti che, dopo rovinose cadute, sono costretti a esporre le terga sanguinanti in mondovisione.
Mi tolgo casco e cappello. La testa è tutta intera e anche il casco è integro. È stato appena un buffetto. Sembra che io sia caduta bene. Inconsciamente ho fatto quello che dovevo, come un gatto.

E così si è chiuso il cerchio. Non potevo non cadere anch’io. E rialzarmi, in bicicletta.

Per solidarietà a Sarah, a cui vanno tutti i miei pensieri positivi per una rapidissima ripresa e… forse per emulazione di Iryna, che recentemente mi ha strappato qualche Qom, mia ammiratissima e irraggiungibile “rivale” nelle curve veloci del Velodromo Parco Nord.

 

Tutte le immagini sono elaborazioni grafiche dell’autore dell’articolo.


Colnago e De Rosa: il coraggio di fare cose nuove

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Due campioni del made in Italy in fatto di biciclette, nel titolo rigorosamente in ordine alfabetico, si sfidano sul terreno insidioso della novità. Colnago con un nuovo prodotto. De Rosa con un nuovo e sperimentale modo di comunicare la propria realtà.

Le storie di entrambi i brand le conosciamo bene, ma per chi avesse bisogno di un ripasso c’é, in queste pagine di Fashion Times, l’intervista a Ernesto Colnago e la visita in azienda con Cristiano De Rosa.
Così la scorsa settimana posso dire di avere passato una “24 ore” davvero intensa, neppure stessi spingendo le pedivelle corte di una scatto fisso al Vigorelli.

Ventiquattro ore filate in cui, nell’ordine, ho fatto visita alla presentazione della nuova E64 di Colnago al Magna Pars, nell’evento di debutto organizzato dall’amica PR di Padova Laura Manfrin, per poi proseguire all’Upcycle Café, dove si proiettava il bellissimo docufilm dedicato al grande Luciano Berruti, indimenticato volto vintage de L’Eroica, e infine iniziare e concludere, per l’intera giornata successiva, il mio tradizionale press day in showroom, ovvero l’evento che, contemporaneamente alle aziende e agli altri studi di PR di zona Tortona, presenta le novità di stagione. Sì, ma in questo caso la novità nella novità cos’era? Il bike test De Rosa riservato, come recitava l’invito, “alle coraggiose giornaliste“. Insomma un vero esperimento… Riusciranno i nostri eroi a far balzare in sella stylist, fashion editor, blogger, costumisti ed influencers? A inizio giornata quasi sembrava mission impossible. Eppure…

Una panoramica del press day della mia agenzia a cui ha partecipato De Rosa. Nel lato destro dello showroom si scorgono il modello della Nippo Fantini e la SK Disk Pininfarina

Ma andiamo con ordine e torniamo alla novità di casa Colnago. Il gioiellino elettrico, dal telaio monoscocca, ha una geometria davvero invidiabile. Snello il telaio e discreto il motore, posizionato nel mozzo della ruota posteriore. Quanto pesa il tutto? Me lo hanno chiesto in molti appassionati. Adesso ho finalmente studiato la cartella stampa: sono solo 12 Kg, batteria inclusa. Un vero primato.

La nuova E64 Colnago, eRoad di soli 12 kg, e un momento della presentazione con Ernesto Colnago insieme al nipote Alessandro

Ma la cosa più eclatante è la bellezza della linea. Con un profilo così racing si avrà la sensazione di volare, specie quando sarà sbloccata… perché sì, intendiamoci, da che mondo e mondo, il “motorino 50” del vecchio Ciao e cilindrati simili, hanno sempre avuto uno spirito più veloce a cui erano destinati. Così è nel dna delle eBike ricevere la benedizione di un meccanico compiacente dopo che la si sarà portata a casa. E la nuova E64 di Colnago viene proprio da portarla a casa e da dire: è mia.
Saluto Ernesto Colnago. Come sempre entusiasta delle sue creature. Mi dice che l’eBike è il futuro. Scommessa già vinta. E non poteva mancare la versione eRoad di Colnago, creata dal telaio della C64, dallo scorso anno al top della gamma di casa.

Non possono mancare i selfie con Ernesto Colnago e Vanni Brambilla

Conosco quindi Vanni, il genero di Ernesto, altro ingegnere in pectore, che naturalmente si definisce semplicemente un “meccanico”. È appassionato come solo un Colnago doc sa esserlo. Mi racconta di una formula nuova di colla che un suo amico dovrebbe senz’altro brevettare. Insomma, traghettata dalle sue affascinanti parole entro nel mondo magico della sperimentazione Colnago, il cui entusiasmo brilla dal 1954. Tutto intorno a me è perfetto. C’é Justine Mattera, che fiera mi mostra la foto del suo telaio Colnago, con il suo nome sopra, c’è Mauro Scovenna di Bike Channel e c’è persino Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, che scopro quindi appassionato di ciclismo. Il parterre della presentazione è caldo e accogliente. Si percepisce amicizia e infinita stima. In Colnago quindi l’innovazione si presenta nel segno della tradizione. Lato comunicazione, s’intende.

Justine Mattera, insieme a Alessandro Brambilla, intervista Ernesto Colnago durante la presentazione della nuova E64

E dunque ecco invece il “nuovo” di casa De Rosa. Non è il debutto di un nuovo modello, non è la scommessa di immettere sul mercato un nuovo tipo di prodotto. È “semplicemente” la scelta, davvero coraggiosa, di presentarsi per la prima volta ad un nuovo tipo di pubblico… a quella banda di folli “nerds della moda” che forse mai nella vita, se non per sfrecciare più velocemente tra una sfilata e l’altra, hanno posato le proprie eleganti terga, rigorosamente modellate dal pilates, sulle rigide curve di un sellino da bici.

Da sinistra, la blogger Martina Favaro e le influencer Flaminia Fiorucci, Rama Lila e Magda Grigolon alle prese con il bike test De Rosa

Benvenuti al mio pazzo press day dove la bicicletta, che tanto ha fatto bene al mio corpo e alla mia testa, è tra i protagonisti della stagione FW 19-20.
Davanti all’ingresso del mio spazio, in zona Tortona, ci sono le strategiche Milanino, il brand De Rosa concepito per offrire una bici comoda, bella e performante da destinare al commuting bike urbano. I quattro coloratissimi modelli sono schierati in cortile, tra le bandiere De Rosa al vento, in attesa di chi oserà il bike test. All’interno dello showroom invece fanno bella mostra di sé due “mostri” della tecnologia racing e del design. Accanto alle proposte full color della couturier Sofia Alemani brilla altrettanto acceso di colori il modello del team UCI Nippo Vini Fantini Faizanè. E la maglia della squadra, indossata dal manichino, sembra proporsi come ideale fidanzato della “signorina” in viola che presenta lo stile ultra-pop di Sofia. Il busto del ciclista è un po’ più basso rispetto al manichino-donna… e così è assicurato “l’effetto-Barbie” nell’insolita, ma sempre apprezzata, coppia con il ben più figo Big Jim. Un ciclista della Nippo Fantini non può essere uno sdolcinato Ken! E la sua sgargiante divisa sembra inoltre pienamente a suo agio nella dimensione della couture à porter di Sofia, estrosa stilista di Lecco.

La giornalista moda Concetta Bonaldi osa coraggiosamente un fuori sella in minigonna. Mentre i redattori moda Leonardo Persico, Thais Montessori, Pia Johansson e l’influencer Hayan Fu sono fermi solo per la foto, poi spingeranno anche loro sui pedali

Vicino alle strepitose maglie PH Apparel e ai gioielli top di Romano Diamonds avevo poi sapientemente piazzato l’elegantissima De Rosa SK Disk realizzata con Pininfarina. Un silurino color canna di fucile di sublime eleganza che sembrava rispondere alla famosa domanda: “se mia moglie esige un diamante io cosa mi compro?”. Nessuno spazio all’immaginazione, ecco i De Rosa pronti per servirvi!

E il bike test? Un successone! Chi avrebbe mai scommesso sul coraggio di un’influencer? Eppure ecco Rama Lila sfrecciare con i suoi calzoncini da ciclista fucsia. Già vestita giusta: il look perfetto per ogni occasione. E poi c’è Flaminia Fiorucci che sfida i pedali con il tacco alto. E non resistono alla tentazione di tornare un po’ bambini anche i costumisti e gli stylist. Luigi Gaballo sceglie il modello che si abbina alla sua giacca camouflage e Carlo Sinesi è distintissimo con il lungo trench sabbia.

Gli stylist Carlo Sinesi e Luigi Gaballo… a riprova che con la bici giusta si è sempre trendy

Insomma… tutti felici e contenti. Perché è proprio vero che pedalare (e far pedalare) dà infinita gioia e il target a cui rivolgere questo sano invito non può che essere sempre quello giusto.

 

Tutte le immagini di questo articolo sono originali e realizzate dall’autore o provenienti dall’ufficio stampa di Colnago. 

In copertina: la famiglia Colnago alla presentazione della nuova E64 (fonte Colnago) e un momento del Bike Test De Rosa presso l’agenzia di comunicazione Laura Magni Web & Media

Prepararsi alla GranFondo Firenze De Rosa

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Per affrontare la GranFondo Firenze De Rosa bisogna allenare il cuore o allenarsi con il cuore? Iniziato il countdown dall’ora “X”, ovvero domenica 14 aprile, giorno in cui si terrà questo bellissimo evento di ciclismo il cui percorso si snoda sulle colline intorno a Firenze, ecco che mentalmente il rischio è di cadere nel panico.

Sì perché il tempo è sempre poco e in me, come penso nella stragrande maggioranza dei ciclisti, c’é l’esigenza di trovare quella giusta rappresentazione di sé e del proprio stato di forma che consentirà poi, durante la granfondo, di giocare al meglio le proprie carte.

Si sa che è topico nel ciclista fare dichiarazioni preliminari e quindi annunciarsi come “allenato” o “non allenato”, fa la differenza. Spesso è tattica. C’è quello che fino a cinque minuti prima del via piagnucolava che non ce l’avrebbe mai fatta e poi magari lo rivedi fischiettare in piedi sulla sella scalando il muro di Via Salviati come se fosse su una Sirtori qualsiasi. E quello che vantava uno stato di forma strepitoso che invece stringe i denti e si capisce che non ne ha più, ma ugualmente riesce a intimorire l’avversario, con la pura suggestione.

Il terribile muro (o strappo) di Via Salviati in tutta vertiginosa asperità

Il ciclismo corrisponde ad una certa forma di teatro. Decisamente sperimentale. E chi non si allena con il cuore, come dovrebbe, soprattutto nella granfondo intitolata alla De Rosa che ne ha fatto il suo simbolo, è solo un cattivo ciclista o un ciclista cattivo?
Già. Difficile scegliere il ruolo da interpretare. Così come non è facile capire se in aprile, nella mia prima granfondo di primavera, conteranno di più le gambe, la testa, i polmoni oppure il fatidico cuore.

Vado o non vado? La tentazione della fuga, tenendo d’occhio il gruppo

Nell’avventura della preparazione “fai da te”, perché non ho ancora mai aperto il libro della conoscenza del bene e del male, ovvero delle tabelle e del nutrizionismo applicato al ciclismo, punto molto sul talento, che probabilmente c’é, altrimenti non sarei qui a raccontare, e sui buoni consigli degli amici esperti.

Ecco quindi quello che ho incassato, tra suggerimenti e buoni propositi, in questi giorni pre – GranFondo De Rosa a Firenze.
Sono 5 in tutto, così come usa nei testi sul web che piacciono tanto ai motori di ricerca.

1. Ni alcool.
Sì perché in questo “fioretto” pasquale che mi sono autoimposta, il vinello dell’aperitivo cede il posto alla birretta. Quindi non proprio a zero, perché come si fa, soprattutto durante la Design Week?

2. No ai fuorigiri.
Questo è il consiglio di Mario Bodei, presidente di dateciPista, al Velodromo Parco Nord. Cioé non esiste la salita impossibile, l’importante è farla al mio ritmo, scegliendo di accompagnarmi a chi ha la mia velocità. O la mia lentezza.

Tra tutti loro troverò qualcuno che andrà con il mio ritmo?

3. Sì all’affanno.
L’importante è avere il fiatone almeno una volta al giorno. Così mi dice Francesco Centrone, grande istruttore di spinning e locomotiva dei treni più veloci in Velodromo. Così che sia nel percorso casa-ufficio o nella pausa pranzo a Gaggiano almeno una volta o due vado a manetta. Obiettivo fondo.

4. Sì al terrorismo.
Chi ha paura di via Salviati? Identificare il “babau” della granfondo e sviscerarne ogni millimetro su Strava. Per poi condividere sui social le tue ansie da prestazione. Immancabilmente arriverà il consiglio che aspettavi, in questo caso quello di Cristiana che da Facebook mi avvisa di stare attenta a chi ho davanti perché qualcuno su quel breve muro di 600 metri tende a inchiodare quando tocca il 19%. Ma al tempo stesso mi incoraggia “io che sono una pippa ce la faccio…” Ah ok… bene! Poi però bisognerà verificare quanto vera pippa Cristiana sia.

A Firenze oltre alle tentazioni culinarie non mancheranno quelle dello shopping sfrenato

5. Ni alla dieta.
Carboidrati o proteine? Non avendo mai amato pane e pasta per me il nutrimento numero uno nello sport è sempre stata la bella bistecca di Tex Willer. Oppure il carpaccio di pesce. Tutta roba che i miei canini acuminati sembrano chiedere a gran voce. Eppure poi ho una fame inestinguibile… Forse è il caso di integrare con un piatto di tonnarelli al ragu, qualche volta? La mia dieta è così. La dieta del dubbio alla Berthold Brecht.

Tuttavia c’è infine il sesto buon consiglio: credere in se stessi.
Farò prudentemente la mediofondo, che prevede ben 1800 mt di dislivello spalmati in 95 km. L’approdo al muro di via Salviati c’é… e attende tutti i vincitori (delle proprie paure).

 

Tutte le immagini di questo articolo sono tratte dalla gallery della GranFondo Firenze De Rosa del 2018

Sentirsi un po’ Bartali alla De Rosa Granfondo Firenze 2019

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Da cosa parto per raccontare l’incredibile esperienza della De Rosa Granfondo Firenze? Dai quasi 300 ricoverati per ipotermia? Da quelli che hanno girato le ruote appena a Fiesole? Dal fatto che nel farla mi sono sentita un po’ Bartali?

Sono tante le sfaccettature di un’impresa che nel cuore di molti è già diventata leggenda. E ancora non ci credo che insieme a poco più di 800 coriacei ciclisti, di cui solo 33 donne, ce l’ho fatta anch’io. Non ci crede neppure il mio Garmin che in certe tratte di inequivocabile salita mi segnava nel monitor il “-“ mangiandosi circa 700 mt di dislivello. Ma bene! Non poteva mancare questa soddisfazione. L’umore però, dislivello a parte, è alto. Come l’Everest. E lo è ancora adesso. E lo era persino durante la gara. “Poteva andare peggio. Poteva piovere!” diceva quel ciclista nel superarmi tra gli scrosci d’acqua che ci hanno accolto a Fiesole, proprio all’inizio dell’avventura. Mi faccio una bella risata e poi vedo stampato sulla schiena il suo numero di gara. Ohibò è il 666! Ok, si sta scherzando niente meno che con il diavolo in persona, ovvìa. Ma nonostante si sia nelle terre predilette della bestemmia facile, tra le file dei ciclisti c’è invece un’insolito silenzio. Sarà perché tutti battono i denti per il freddo? Senza dubbio. Ed ecco allora com’è andata.

Già a Fiesole era tutto chiaro: la pioggia non ci avrebbe mollato un secondo…

Partenza bagnata…

Alla partenza c’è il sindaco ad attenderci. Ha un aspetto che oserei definire radioso. Il suo sorriso spicca tra le brume della giornata uggiosa. Viene da me bello spedito e mi saluta tutto allegro. Ciao io sono Dario Nardella. E io mi chiamo Laura, molto piacere!
Lo speaker è uno spettacolo. Fa più lui della tecno pompata di sottofondo. Cristiano De Rosa, accanto a me alla partenza, mi dice che è un personaggio famoso proprio per la carica che riesce a trasmettere. E infatti, con i suoi ruggiti tonanti al microfono, dà a tutti una bella smossa. Anche alle nuvole che, dalle prime timide goccioline espresse nell’attesa, passano, a pochi secondi dal via, alla consistenza della pioggia vera, quella che ti bagna sul serio. Per fortuna avevo già indossato la mantellina.

Un selfie con il simpatico sindaco di Firenze Dario Nardella, lo schieramento alla partenza e Cristiano De Rosa intento a ringraziare la città e gli organizzatori

Come sempre dal meteo si capisce tutto

Perbacco piove proprio!
E dire che le previsioni erano incerte fino all’ultimo. Con un sabato freschino, ma a tratti con un gran sole generoso. Nessuno ci credeva fino in fondo al tempaccio. Un ciclista ha sempre l’idea che pedalando i nuvoloni neri si schiudano al suo passaggio, come le acque di Mosè. E invece stavolta no. Stavolta sarà acqua a catinelle dall’inizio alla fine.
Tuttavia, davvero incredibile, io che mi sono sempre pensata metereopatica e incline ad avere il muscolo atrofizzato dal freddo ecco che mi scopro dotata di risorse mai viste. Del resto la salita verso Fiesole è davvero piacevole. Non ci sono strappi duri, la fatica non c’è. Sarà la bici prestata dalla De Rosa. Una piuma. E i freni? Mai provata una simile percezione di sicurezza. Eppure sono meccanici, ma doppi. La sensazione alle mani è di governare con le leve due morbidi cuscini, in cui soffocare le discese più cattive.

La saggia tattica di Cristiano De Rosa: dopo la partenza (in discesa!) fermarsi a bordo strada e lasciare passare il gruppo più scatenato. Idea molto apprezzata!

Gestire la gara. O meglio: scommettere di farcela

Sono quindi concentrata su me stessa, con l’ignoto davanti che è sì spaventoso, ma non più dello sbadiglio di un mostro per bambini. Cristiano De Rosa e l’amico Armando, con cui avevo avviato una conversazione prima di arrendermi al mio passo decisamente più bradipo, sono andati avanti. Ma io non mi sento mai sola in queste occasioni, perché ascolto le mie forze. E le voci questa volta erano davvero tante. Ce n’era una che mi martellava sui km fatti. Ma come, non sono ancora neppure 20? Un’altra che forse era quella del legittimo proprietario della bici, il giapponese Kohei Uchima, “passista, uomo squadra e possibile uomo da fughe” (così recita il sito del team) che continuava a ripetere un ottimistico “banzaiii!!!” ad ogni pedalata. Poi c’era la vocina dello sconforto, che naturalmente cercavo di non ascoltare. E infine quella che, dai 40 km in su mi diceva: “dai che sei quasi a metà”. Chissà comunque perché, nonostante vedessi frotte di ciclisti fare inversione di rotta anche prima di raggiungere Fiesole, mai mi è balzato in testa di fare altrettanto. Forse perché la paura di perdersi nel ritorno era più forte dell’idea di continuare. E poi perché, probabilmente per il freddo, ogni dubbio sembrava congelato e di conseguenza l’unica era andare avanti.

Ecco Kohei Uchima, il legittimo proprietario della “mia” bici De Rosa in prestito. Ci assomigliamo vero? Sembra il personaggio di un manga… proprio come me!

Quando il freddo si fa sentire in bicicletta…

Nel contempo si vedevano scene apocalittiche. Al ristoro c’era uno che asciugava i guanti con un tubo di scappamento. E in seguito mi è stato raccontato che un altro, in preda al panico per il freddo, si è sdraiato sotto ai tappetini sporchi di un auto al lavaggio, in cerca di qualche grado di temperatura in più. Effettivamente c’erano frotte di bici anche da migliaia di euro gettate senza alcuna pietà sull’erba a bordo strada con i loro ciclisti intenti a scaldarsi nei tanti pulmini inviati in soccorso dall’organizzazione. Eppure sembravano non bastare. E allora c’erano tanti bravi automobilisti di passaggio fermi ad accogliere ciclisti congelati per un temporaneo conforto in un interno riscaldato. L’unico bar incrociato sulla strada sembrava pieno come il vagone di una metropolitana.

È quindi stato allora, mentre i miei occhi vedevano tutto ciò, che ho incominciato seriamente a pensare che potevo farcela. Sì perché nonostante indossassi solo un intimo anti vento, la maglia estiva ufficiale della gara, manicotti e mantellina, calzoncini corti, calze di cotone e le scarpe con il puntale, con i piedi che già prima di fiesole erano due ranocchie nello stagno, mi sono resa conto che, diversamente dalla maggioranza, non sentivo affatto un freddo esagerato. Merito forse del cappellino-talismano del mio cliente PH con l’arcobaleno sopra? Certo è che non sentivo quel freddo che coglievo negli occhi disperati di chi si fermava tremante come una foglia, avvolto in improvvisate mantelline fatte con il sacco nero della spazzatura. Ecco… giusto un po’ di insensibilità alle dita delle mani. Del resto che si pretende? Avevo i mezzi guanti estivi!

Se, a parte il tempaccio, va tutto bene, è bello regalare al fotografo il proprio sorriso migliore

Scoprire in sé una resistenza mai vista prima

Insomma, sono dunque dotata di qualche super potere? Eh no… molto semplicemente avevo ben altro per cui disperarmi: la sella! Mai più, e sottolineo mai più, senza la mia. Mio errore imperdonabile. Un ciclista che di sé conosce questa debolezza non può lasciare la propria sella a casa. Così ad ogni giro di pedale era uno strazio. A cui si aggiungeva una maledizione che tiravo a me stessa. Già dopo 5 km aveva incominciato a farsi sentire e, giuro che non mi pento, ogni volta che incrociavo l’auto del brand di queste blasonatissime nonché incolpevoli selle, mi veniva da tirare giù tutte le madonne e i santi. In puro stile toscano. Ecco quindi il mio segreto: chiodo scaccia chiodo. Novità, la sella scacciapensieri!

A questa nobile distrazione ho aggiunto poi un minimo di sense of humor: “è grappa?” chiedevo al volontario che mi porgeva il bicchiere con uno strano liquido verdino. “…ma nooo è una soluzione con dei sali!” “ah ok – replicavo – insomma roba buona più per le mie lenti a contatto!“. Senza contare poi l’indispensabile buon senso. Non ci vuole infatti molto a capire che a fermarsi troppo a lungo in un ristoro poi, alla ripartenza, ci si congela.
Io ho appoggiato giusto un piede, 60 secondi per spremermi l’imprescindibile gel One Hand della Enervit, quello più veloce che puoi anche consumare in corsa senza problemi di equilibrio.

Con la De Rosa Protos in prestito per la gara posso anche permettermi il fuori sella sotto la pioggia

Così continuavo a spingere sui pedali, animata dall’idea che sì, questa volta la missione speciale sarebbe stata la più nobile ed esaltante: farcela. Arrivare alla fine con le proprie gambe. Battere il clima. Proprio come quella famosa volta in cui Bartali evitò la guerra civile in Italia vincendo al Tour de France nel ’48. Ed io di che mi lamento? Non sta mica nevicando!
Dopo il laghetto di Bilancino nel Mugello delizioso nella sua calma invernale e lasciato con il rimpianto di non averlo visto baciato dal sole, dopo un paio di passaggi su stradoni veloci, superando in piano i 44 km/h, e un paio di agglomerati di case contadine dove le poche anime incrociate si prodigavano in un caloroso incitamento, eccomi finalmente all’ultima, morbida salita. Sì c’era giusto una breve formalità da sbrigare prima di scendere a casa. E affrontare lo strappo di Via Salviati. Ed è qui che ho incrociato Anna.

A bordo strada vedo un ciclista magrolino che spinge a mano la bici con passi incerti. “Tutto bene?” Mi volto e vedo una donna biascicare una risposta incomprensibile. Mi fermo? Sì mi fermo. Tanto mica si punta alla classifica, ovvìa! 58 anni, braccino destro rattrappito dal freddo, Anna non sarebbe stata più in piedi troppo a lungo. La sostengo e riesco ad appoggiarla al muro inclinato della strada. “Mi viene da vomitare” mormora debolmente. Mi fa segno con la mano alla tasca posteriore: “antiacido…“. Ok, ma ahimè delle pastiglie non rimanevano che i gusci vuoti. Allora incomincio a sfregarle le spalle energicamente per scaldarla. E se ha una congestione che faccio? Stavo giusto iniziando a rendermi conto della mia inettitudine, come sempre accade in questi casi imprevedibili, che per fortuna si ferma un’auto. C’é una coppia di bravi signori che fanno salire Anna a scaldarsi. E a me danno una bella spinta per ripartire sull’ultima salita!

Nelle facce degli eroici finisseur tutta la fatica e la gioia di avercela fatta!

Un po’ di tregua dalla pioggia arriva giusto per il gran finale su per Via Salviati

Ormai si sente il profumo di Firenze. E una fettina di sole fa capolino facendo scintillare l’asfalto. Ci siamo. Tra poco affronterò l’ultimo livello del gioco: lo strappo di via Salviati. Eccolo è lui. La curva secca che lo precede è costellata di segnali. Ci manca solo il tappeto rosso. Svolto e si apre davanti a me un abisso rovesciato. Diritto. Implacabile. Molto più impressionante del muro di Sormano. Lo vedi tutto, non ci sono curve e alberi a confondere le idee.

Devo quindi decidere in fretta. Metto il 32? Meglio di no. La catena potrebbe rovinosamente cadere ad un passo dal traguardo. Non mi merito di spingere a mano la bici proprio all’arrivo. Erano infatti stati aggiunti, su mia richiesta, il 30 e il 32 e quindi il rischio c’era tutto. Soprattutto ingranando su una salita così repentina. Da casa alla partenza in piazza Michelangelo la catena era infatti caduta un paio di volte sulla rampa più ripida. Del resto… l’aggressiva Protos di Uchima non poteva certo contemplare un rilassante 32 da amatore.
E allora ok, vada per il 28! Banzai! E non mi vergogno del mio zig zag. Piuttosto devo farlo bene, senza scontrarmi con nessuno… Dietro di me ho appena sentito uno schianto e qualche bestemmia volare.

Dalle foto ufficiali della De Rosa Granfondo Firenze scopro che non sono stata l’unica a concedermi un po’ di zig-zag in Via Salviati

Ma ecco gli ultimi 100 mt. Qui siamo al 19%… aiuto! La bici miracolosamente non s’impenna e il manubrio riesce a pennellare una splendida serpentina nonostante le mie braccia siano ormai morbide come quelle di un Pinocchio scolpito nel tec.
Ecco la striscia blu dell’arrivo, proprio dove spiana! La pelle delle cosce sembra non riuscire più a contenere i muscoli… brucia tutto! E il mio ansimare è davvero incontenibile, oltre che lievemente imbarazzante. Già… a sentirmi pare proprio io stia raggiungendo qualcos’altro, anziché un traguardo.
Ci sono, è fatta, ovvìa! Ora non resta che raggiungere i De Rosa al villaggio. “Scusi è per di qua che si va al Parco dell’Uccellina?” “Signora mia che tempra! Saranno almeno 150 km” scoppia a ridere il vigile a cui ho rivolto l’improbabile domanda. “Ok, ok, il Parco delle Cascine!“. Eh sì… dopo 100 km passati in compagnia di Bartali e di tutti gli eroici ciclisti toscani che si sono temprati al gelo di queste aspre terre, lasciatemi vivere ancora qualche secondo nel regno magico delle missioni impossibili.

Gli ultimi terribili metri in Via Salviati e poi… il meritato traguardo! Ce l’ho fatta anch’io!

Tutte le foto ufficiali dei ciclisti sono di Castagnoli. Si ringrazia la De Rosa e la Granfondo Firenze.

Garmin e ciclismo: si può vivere senza?

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La De Rosa Granfondo Firenze della scorsa settimana non poteva passare del tutto indenne… Raffreddore? No no, più sana di un pesce. Problemi muscolari? Nemmeno. Come fare le scale di casa. Cioè zero problemi. E allora? Allora doveva toccare all’equipaggiamento elettronico. Il Garmin. Ovvero l’inseparabile, unico, inimitabile miglior amico tecnologico del ciclista, dopo la bicicletta.

Avevo avuto sentore che qualcosa non andava già subito dopo la gara, quando sincronizzando la corsa avevo visto che, pur facendo esattamente il percorso ufficiale (mica ho preso scorciatoie) risultavano circa 700 mt in meno di dislivello. Ma come… eppure non ho certo volato tra un colle e l’altro.
Così ho ripensato alle voci che corrono sull’elettronica “sensibile” alle variazioni elettromagnetiche. Tempo fa il mio Garmin aveva registrato, sulla salita di Montevecchia, una bella impennata a livello cardiaco: 226 bpm. Vedendo il numero sullo schermo stentavo a crederlo. Ma, insomma… per prudenza avevo deciso di rallentare. Possibile? Eppure il mio cuore quando l’ho spinto sopra ogni limite di presunta sopravvivenza non ha mai passato i 191 bpm.

Alberto Bettiol e le schermate con i dati della sua trionfale vittoria alle Fiandre 2019

Comunque, volendo credere all’infallibilità presunta del device, mi ero applicata a fare un po’ di controlli medici. Giusto ciò che è bastato per sentirsi dire, con molta convinzione da parte di blasonata cardiologa, che per la mia età sono parecchio in forma.
Quindi il sospetto è che un traliccio ad alta tensione possa aver pompato qualche numero di troppo.

Bene… e a Firenze? Non posso dimenticare che circa a metà percorso la strada s’infilava sotto ad un’alta torre di ferro. L’eco sprigionato dai cavi dell’alta tensione era così potente che sembrava l’urlo delle astronavine cattive di Star Wars. Quelle a forma di caramella 3D, per intenderci. Lì per lì ho pensato che ci fosse il cono di luce dei marziani che sollevano le mucche nelle campagne dell’Arkansas. Invece tutto bene, apparentemente. Con le gomme ben piantate sull’asfalto avevo continuato la corsa nel nostro pianeta e non su Marte. Ma il Garmin, a quanto pare, no. La tensione dei cavi forse lo aveva irrimediabilmente mandato in tilt. Prima con l’altimetria e poi, puff… improvvisamente sulla strada per l’ufficio, schermo bianco e addìo. Coma profondo.

Così, nella settimana in cui ho capito cosa dovevo fare e ho fatto un salto alla sede milanese di Garmin, per scoprire che anche il Venerdì Santo sono gentili e comprensivi nei confronti di una ciclista fissata con le cadenze e i Qom, ecco che ho sperimentato, dopo un anno di beata assuefazione, l’incredibile esperienza di alcune pedalate senza Garmin. E non c’è stato secondo in cui non mi sono chiesta… ma si può vivere senza?

L’ingresso della sede Garmin a Milano. Sembra minaccioso ma… dentro sono gentilissimi!

Ci sono infatti almeno 5 buoni (o cattivi) motivi per cui non si può fare a meno del Garmin:

1. È tardi! È tardissimissimo.
Non c’è che un modo per arrivare sempre in ritardo: guardare incessantemente, come il Bianconiglio di Alice, l’orologio. Con l’orologio del Garmin è lo stesso. Ce l’hai lì davanti e non puoi credere di esserti sopravvalutato così. Neppure Tom Dumoulin con i tempi della sua migliore crono arriverebbe in orario.

2. Ohm… Qooommm…
C’è il mantra a cui nessun ciclista fissato con i numeri può resistere. Ed è il Kom o il Qom (per le donne), ovvero essere i più veloci in un dato segmento. Con il Garmin puoi vedere la tua prestazione in diretta. C’è persino il countdown a pochi metri dallo start. E senza Garmin? Puoi sorprenderti a fare da solo “Bip…bip…biiiiiiiiiip! Vai!” e tutto è forse un po’ ridicolo.

Quando hai sempre davanti agli occhi il tuo Garmin è dura farne a meno…

3. Horror celeritatis
Se in velodromo avessi visto che stavo superando i 52 km/h avrei proseguito senza tema la mia corsa in scia o mi si sarebbero bloccate le gambe? Bello scoprire certe performance in un secondo tempo… Avere la possibilità di contemplarle in diretta a volte fa un po’ paura.

4. Manca solo il caffè
La classica battutina sull’elettronica tuttofare si addice al Garmin. Tra temperatura, cadenza media, km mancanti, pulsazioni cardiache, prestazioni degli amici e molto altro non resta davvero escluso niente. Così quando non hai tutti questi dati sotto gli occhi ti senti come Guglielmo da Baskerville senza la sua biblioteca.

Anche un Garmin sa essere aerodinamico5. La polena della nave
Inutile aggiungere l’aspetto estetico. Ma non c’è nulla di più desolante che vedere il manubrio della propria bici con quel braccino proteso così sguarnito. Il porta Garmin senza Garmin è tristissimo. Come se a un vascello avessero rapito la polena, o alla Rolls-Royce la statuetta “Spirit of Ecstasy”. A tratti è come affacciarsi ad un balcone con il parapetto basso e con l’idea di cadere.

No no, mai più senza! Il Garmin sarà pure la piuma magica di chi si vuole illudere di volare, ma anche solo farne a meno per qualche giorno, in attesa del rimpiazzo di garanzia, mette a dura prova il ciclista contemporaneo. Alzi la mano chi oggi può fare a meno dello smartphone!

 

Le immagini sono dell’autore e sono tratte dal sito e dal blog ufficiale di Garmin

Bike Academy, a scuola di ciclismo

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La telefonata di Luca Salvadeo era arrivata inaspettata, ma io già sapevo di cosa poteva trattarsi: un invito a Bike Academy, la trasmissione in onda su Bike Channel che insegna agli amatori a pedalare meglio.

Così dita incrociate perché ahimé la mia vita lavorativa è quella che è, ed è quindi spesso difficile centrare un momento in cui io possa davvero staccare. E infatti la freccetta del destino anche questa volta (già c’era un precedente) aveva colpito in pieno uno dei giorni in cui da tempo immemorabile avrei avuto un impegno di lavoro all’estero.

Hai un’amica?” mi chiede Luca. “Certo!” La mia mente corre veloce ed esclude quindi candidate infortunate o con prole da gestire, posandosi infine su una rosa di tre nomi. La prima che chiamo è Tanja, avvocato e appassionata ciclista con tempi di formazione al ciclismo davvero molto simili ai miei. È grazie a Tanja che ho scoperto che il mio arco del piede troppo pronunciato senza una soletta di sostegno adeguata contribuiva a intorpidirmi le dita. Riconoscenza eterna.

Tutta la bellezza di una pedalata in gruppo nelle strade tranquille dei Colli Euganei

Oh no… – risponde – ho già l’aereo per la Sicilia“. Ma quella che sembrava ormai una resa, nel giro di un’oretta, mentre proseguivano le ricerche per sostituirmi, diventava sempre più una tentazione irresistibile. Cosi, spostato aereo e preso il coraggio a quattro mani, ecco Tanja pronta ad una memorabile quattro giorni sui colli Euganei, nel bellissimo complesso alberghiero di Galzignano Terme. Un posto dove io ero già stata, ironia della sorte, proprio per lavoro.
Così, vista in tv la puntata, eccomi a distanza di una decina di giorni pronta a recepire direttamente da Tanja ogni minima sfumatura di ciò che ha vissuto.

A Bike Academy si impara a stare meglio in gruppo e a pedalare in scia per risparmiare le forze

Sono bravissimi!” esordisce con autentico entusiasmo. “Tra massaggi, consigli per la postura, segreti finalmente svelati si può dire che non ho mai pedalato meglio. E ancora qualche giorno dopo i benefici effetti si facevano sentire, sono uscita e ho fatto incetta di Qom”.
Insomma la scuola sembra proprio che abbia funzionato.

Ma cosa faceva più paura a Tanja? Le salite ovviamente. Come me è questa un po’ la bestia nera delle cicliste che, oltre ad una sana passione agonistica, si devono portare sempre dietro quel vago senso di inferiorità che colpisce chi non è certo nata pedalando, ma ha scoperto questo magnifico sport in età matura. Così Tanja non solo ha sconfitto l’idea di non farcela, ma ha anche affrontato una cronoscalata a coppie. La prova clou dell’Academy. Con pendenze a doppia cifra.

La mia amica Tanja con Alessandro Vanotti, a sinistra, e innaffiata da Luca Salvadeo in piena salita

Certo che a vedere Luca Salvadeo, leggiadro come una libellula, tutto sembra facile. E anche Alessandro Vanotti, coach speciale di questa avventura, con la sua elegantissima postura tutta raccolta, sembra suggerire un’idea di ciclismo senza sforzi. Eppure che fatica! A sentire il racconto della crono mi sembrava di vedere le mie gambe durante i metri strappati al Muro di Sormano.

Del resto l’Academy è organizzata un po’ come un ritiro di allenamento per campioni. C’è l’uscita ogni mattina con un preciso itinerario studiato al millimetro per permetterti di imparare qualcosa di nuovo. Ci sono le pause in cui, come dice Luca, si mangia “qualcosa di bilanciato” e poi si riparte. Ci sono le sessioni di massaggio che Tanja mi assicura stroncavano sul nascere ogni eventuale piccolo dolore muscolare. Insomma tutto ruota intorno al ciclismo e questo già, per chi lo ama, è il massimo. È la stessa sensazione di piacevolezza che si prova quando ne parli davanti ad un buon bicchiere di vino. Perché il ciclismo è quell’argomento di cui puoi parlare all’infinito senza mai stancarti o stancare l’interlocutore. A meno che quest’ultimo non sia il fidanzato/a, la moglie/marito o l’amante che sta incominciando a percepire la bicicletta come un’invadente terzo incomodo. E così Tanja ed io potremmo parlare per ore della rigidezza del telaio della sua nuova bici che è tanto difficile da governare in discesa. Ad ascoltare i contenuti senza sentire le nostre voci nessuno potrebbe scommettere che siamo due compassate signore piuttosto che due ragazzini di qualche vivaio agonistico.

Luca Salvadeo e Alessandro Vanotti. Due maestri specialissimi, anche nella “lezione” di come si lava la bici

Vedendo le foto dell’esperienza di Tanja all’Academy non può che scattare in testa la sana proiezione di sé stessi nella medesima situazione. Con qualche tonnellata di altrettanto sana invidia, naturalmente. Sì perché avere a disposizione un Luca Salvadeo e un Alessandro Vanotti che ti studiano e ti consigliano come se tu fossi una promessa del ciclismo da lanciare nel firmamento del campioni è veramente priceless.

…e il bagnetto nell’acqua termale? Una ciliegina sulla torta

All’aperitivo con Tanja è impossibile non registrare quell’inconfondibile sfavillio nei suoi occhi che ancora attesta la felicità toccata con mano. Anzi, toccata con i piedi (sui pedali). E se poi aggiungi che ti hanno massaggiato come un kobe ogni santo giorno, che hai mangiato e bevuto sano ma senza sacrifici, che hai sguazzato nelle acque calde delle terme e hai potuto vedere, con l’aiuto di un esperto, come posizionarti in sella, ecco che sì, cara Tanja, hai fatto proprio bene a mollare la famiglia e a concederti questa piccola, speciale vacanza. Meritata.

E naturalmente l’appello a Luca è di darmi un’altra possibilità. Come cantava Jannacci, vengo anch’iooooooo!

L’elegantissima postura di Alessandro Vanotti. S’impara solo a guardarlo in foto

Ciclismo: cosa succede dopo 10 giorni di stop

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Dopo 10 giorni di stop e a -10 giorni dal Giro E in cui si affronteranno San Martino di Castrozza (tappa 19) e Passo Rolle con finale a Croce d’Aune (tappa 20) il rischio è di farsi prendere dal panico.

Va bene che ci sarà una fiammante E-Road della De Rosa ad attendermi a questo secondo interessante test organizzato da Gazzetta in parallelo al Giro d’Italia, però si pedala lo stesso e fiato e cuore non possono certo fare a meno di presentarsi.

Che dire poi di questa stagione così disgraziata per i ciclisti? Se avessi iniziato a pedalare quest’anno penso che avrei subito appeso la bici al chiodo. Del resto non si affrontano quattro week end di pioggia consecutivi, il freddo di maggio dove anche le rose si chiedono “e io che ci faccio qui?” e il piumino che fa ancora piacere addosso.
Poi non si dica che Greta ha torto. Qui c’è qualcosa di strano. E il ciclista non può che guardare con sconcerto e preoccupazione il tassametro dei km che rimane inesorabilmente sotto i 3.000 km da inizio anno.

Ripartire dopo uno stop forzato è un po’ come tornare all’anno zero:mondo e bicicletta sono appena nati – Photo by Kevin Benkenstein on Unsplash

Nel mio caso è andata così. Un paio di appuntamenti in showroom, freddo come una ghiacciaia, ed ecco che a fine giornata i 6 km di ritorno a casa sono stati pesantissimi come una granfondo sotto la neve. Con più di 38 di febbre non si scherza. E ci sono voluti 3 giorni per liberarsene e accusare i primi colpi di tosse. Persino i polmoni sembravano rimasti bloccati nel freddo, incerti se fosse meglio la tosse o il raffreddore.

Così, se i sintomi del malanno tardavano a manifestarsi, ecco che oggi, dopo tutta questa attesa, sono finalmente riuscita a rinforcare la bicicletta e ha catalogare invece i “sintomi” del recupero.

Sì perché il ciclista che ritorna in sella dopo uno stop forzato di almeno una decina di giorni si può dire che ascolti e guardi esclusivamente dentro di sé. Pronto a preoccuparsi di ogni minimo scricchiolio del proprio corpo nemmeno facesse un test drive.

Dopo un periodo di stop tutti, ma proprio tutti, ti sembrano a un livello superiore – Photo by Jordan Sanchez on Unsplash

E allora ecco divise in 5 punti le sensazioni (e le ossessioni) del ciclista dopo uno stop forzato.

La gamba che spinge di più
Già ci sono i sensori di potenza (costosissimi) a testimoniare che il ciclista tende a ossessionarsi di fronte al quesito, ma è certo che dopo un periodo di stop le gambe tendono a sembrare quelle di un burattino trainato da fili. E allora il pensiero ad ogni colpo di pedale indaga: quale gamba sta facendo più fatica? La sinistra spinge, la destra tira… Il disastro è compiuto se poi percepisci un rapporto agile come se stessi spingendo la bici di Bartali al Tour del ’48.

Il cuore ha la memoria corta
Eri stato bravo a prepararti un bel fondo e i battiti erano scesi al punto da illuderti di poter arrivare ai minimi storici di un Coppi, ed ecco che subito, dopo lo stop, sei di nuovo “cuorematto” Bitossi. Si può davvero dire: core ‘ngrato!

Rapportone, un bel carico di banane e… via! Si rinforzano i muscoli smagriti dalla forzata inattività – Photo by Kameron Kincade on Unsplash

I polmoni inceppati
Qualcuno ha visto degli alveoli? Sembrano andati tutti in vacanza. Abituati ormai a respirare il minimo indispensabile, nemmeno si fosse nelle gallerie sotto alla stazione Centrale negli orari di punta, ecco che davanti alle prime pedalate un po’ decise sembrano guardarti con tanti occhietti pallati, in cerca di una giustificazione. Come si fa quindi a trattarli male? Tranquilli, si ritorna in forma un po’ per volta, niente forzature!

Lo spirito combattivo
Sarà casuale, ma appena si torna in sella di solito ci si imbatte nel perfetto antagonista. Quello che arriva da una strada laterale e senti che va inesorabilmente più veloce di te. Mi attacco alla ruota? Ce la faccio? Sarà positivo per il recupero o meglio non forzare? Nel frattempo, tra una domanda e l’altra, lui è già avanti di 150 mt. Meglio così.

Recuperare la forma è un po’ una gara con se stessi, ma se si incontra qualcuno che stuzzica la competizione tanto meglio – Photo by Simon Connellan on Unsplash

Le tentazioni di Strava
Tutti i tuoi segmenti preferiti sono lì pronti a balzarti sotto gli occhi in diretta. “Vai!” dice lo schermo del Garmin. Ma tu rimani dove sei, tanto hai ancora l’affanno della salita sul ponte. Ma dove vuoi andare? Così capita inesorabilmente di vedere che il “virtual partner” ha già finito una dozzina di secondi prima di te anche in un segmento micro. Totalmente sconfortante.

Ma se da una parte l’umore non è altissimo nel registrare ciò che si è perso in preparazione, ecco che comunque il termometro della gioia ha la febbre altissima. Non c’è niente di più bello ed entusiasmante di un ritorno in sella dopo un lungo stop forzato. Come quelle coppie che si rinsaldano con la distanza. Tra te e la tua bicicletta è subito, e ancora, super-amore! 

Tu e lei, romanticamente ancora insieme – Photo by Sandis Helvigs on Unsplash

L’immagine della cover è di Andrew Gook on Unsplash

Ritorno al Giro E!

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La sorpresa non è epocale come l’anno scorso, quando tutto era un meraviglioso esperimento, ma anche quest’anno si può dire che il Giro E possa esercitare tutto il fascino dell’irresistibile salto nel vuoto.

Ebbene sì, la convocazione è arrivata anche quest’anno e avrò così l’onore e l’onere di esercitare i miei muscoli su una delle e-road, ovvero la bicicletta da corsa a pedalata assistita, più nuova dell’anno. Parliamo della creatura della De Rosa, fresca di un primo debutto mediatico che risale a un mesetto fa, alla Granfondo Firenze e già disponibile da giugno. È qui che la bella e-road della De Rosa ha fatto mostra di sé dal palco dell’organizzazione della manifestazione fiorentina.

La nuovissima E-Bike De Rosa dall’anima fortemente racing… Il motore è occultato nel movimento centrale e la batteria si inserisce dall’alto (più protetta in caso di pioggia) nel tubo diagonale. Prestissimo avrò modo di testarla!

Ora è arrivato per me il momento di spingere sui suoi pedali e, sulla base del ricordo della Pinarello Nytro, esprimere le mie rinnovate sensazioni sul concetto stesso della “pedalata assistita” applicata a un telaio racing.

Ed è sempre sul filo dei ricordi che quest’anno ho forse deciso di spingere più su l’asticella. Scegliendo di partecipare non ad una ma a ben due tappe. E non certo due tappe qualsiasi. Parliamo dei percorsi che coincideranno con la 19a e la 20a tappa del Giro d’Italia. Parliamo delle due tappe di montagna decisive prima della crono finale. Quelle per intenderci che vedranno se Nibali riuscirà a mettere in cascina almeno un minuto di vantaggio per battere Roglic a Verona e che faranno la differenza per chi sarà riuscito a preservare le forze nella terza e tostissima settimana del Giro.

Parlando della sottoscritta forse ho un po’ esagerato nel scegliere proprio la fase finale del Giro E. Senza contare che a causa di questa pazza primavera le mie gambe si sono fermate per dieci giorni con tutto ciò che mi è chiaro ormai comporta a cuore e polmoni uno stop così prolungato. Non dico che bisogna imparare nuovamente ad andare in bici senza le rotelline, ma poco ci manca.

Quest’anno si fa sul serio: ci sono 10 team che partecipano (o gareggiano?) al Giro E. Mi scatterà la voglia di competere o l’ansia da prestazione?

E così mi sento un po’ come alla vigilia di un esame con l’idea vaga di non aver studiato al massimo e di conseguenza con la terrorizzante incognita di sempre: ce la farò?

In questi casi delle due l’una: o ti lasci sommergere dall’idea negativa, e allora la Croce d’Aune del gran finale sarà più pesante da portare di quella di un Gesù sul Golgota, o punterai sul talento e il recupero.

Un elemento femminile del team De Rosa che sembra proprio cavarsela alla grande in salita. Venerdì e sabato toccherà a me!

Se guardo a com’ero l’anno scorso posso dire infatti che c’è comunque un abisso in fatto di preparazione. Ho pedalato sempre. E poi vogliamo considerarli o no i 4 kg in meno della e-road De Rosa rispetto alla Nytro dell’anno scorso? Insomma, c’è da registrare un’evidente evoluzione sia sul piano fisico che su quello meccanico. E un ciclista che ce la fa è sempre un mix di questi due elementi. Se poi ci mettiamo anche la tutina della Santini che promette di essere più aderente e “kattiva” del mesto “pigiama bianco” indossato l’anno scorso ecco che il gioco è fatto.

Il festoso e variopinto gruppo dei 10 team del Giro E. Per ogni squadra 6 elementi

Così non resta che una cosa da fare. Studiare bene le mappe, capire come prendere le salite e iniziare già mentalmente a dosare forze (e batteria).Già perché la tentazione sarà quella, inevitabile, di andare a tutta e magari rischiare di rimanere a secco proprio sul più bello. Però la lezione l’anno scorso l’ho imparata. Io ero stata l’unica, nella salita della tappa di Iseo, a tenere al minimo la spinta del motore. Poi avevo scoperto che tutti gli uomini erano partiti a razzo, compreso Andrea Lo Cicero con tutto il suo peso (massimo) di 120 kg, spingendo sulla marcia rossa, ovvero la più potente. Così mentre io ero a compiacermi del mio onesto approccio al GPM, gli altri se la giocavano alla grande con quel giusto cinismo che fa bellissimo lo sport del ciclismo.
È così. Roglic è costretto a pedalare gli ultimi 20 km sulla bici dalle geometrie estranee di un compagno? Vai Nibali! Spingi a tutta!
Va bene il fair play, ma quando ce vò ce vò, che diamine.

E se questo sarà l’approccio mentale all’impresa Giro E di quest’anno non dovrò però mancare alla sfida più grande. Quella di riuscire ad arrivarci. Sì perché tra treni e pullman la vera tappona sarà costituita dalle 6 ore di viaggio che mi aspettano alla vigilia, per raggiungere la meta della prima partenza: Valdobbiadene.
E il ritorno a Milano da Predazzo? Mi sa che mi tocca l’autostop!

…Infine confidiamo nel sole!

 

Tutte le immagini sono provenienti dal sito ufficiale del Giro E

 

 


Giro E: questa volta si faceva sul serio!

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Dieci team-squadra, dotati ciascuno di sei corridori, si sono sfidati percorrendo le stesse strade del Giro d’Italia.
Sì, questa volta al Giro E si faceva sul serio. Non più gruppo unico con l’atmosfera sospesa tra la scampagnata e l’esperimento, ma una corsa dotata di regole, punti, maglie per i leader e classifica.

Così mi sono ritrovata a vivere appieno l’emozionante vita del “corridore al Giro“. Signore e signori… tutto vero! Provare per credere!
E nel gruppo dei 60, che nella tappa conclusiva di Croce d’Aune / Monte Avena, sono divenuti un’ottantina in virtù degli ospiti aggiunti a ogni team dall’organizzatore, ecco che mi scopro per età, genere, storia sportiva (pressoché inesistente) e livello di allenamento, colei che sicuramente avrebbe avuto meno chanches. Proprio come Sho Hatsuyama, il corridore della Nippo-Vini Fantini-Faizanè, naturalmente anche lui dotato di bici De Rosa, ma senza motore Bafang, come lo era la mia, che ha infiammato la platea del Giro vero e proprio con le sue lunghe fughe scintoiste e con la “maglia nera” virtualmente indossata al capolinea di Verona.

Negli scatti che ho fatto alla tv, le scenografiche riprese della RAI durante la mitica fuga di Sho Hatsuyama

Ma andiamo con ordine. Invitata dalla De Rosa a scegliere due tappe del Giro E per parteciparvi in veste ufficiale e correre con la nuova e-bike della blasonata casa di Cusano Milanino, eccomi finalmente in hotel nei pressi di Valdobbiadene, alla vigilia dei primi 100 km che sarebbero approdati a San Martino di Castrozza. Una delle tappe di montagna più durette del Giro d’Italia.

Ed anche se al gruppo del Giro E viene fatta la grazia di una tappa ridotta, non sarà tanto in fatto di metri di dislivello che in questa occasione è previsto uno sconto.

Così in albergo tutto è vero. L’atmosfera carica di adrenalina, il team che provvede alle bici che devono essere sempre ben “lavate e stirate”, la stanchezza che si percepisce nel gruppo, provato anche da un clima fino quasi a fine Giro davvero avaro di sole.

Primi metri alla partenza da Valdobbiadene… atleta tra i veri atleti… anch’io, come Sho Hatsuyama! – frame dal video pubblicato nel sito del Giro E

 

Entro così subito nel vivo e quasi senza accorgermene ecco che divento anch’io “atleta del team“.
È un motore intelligente – mi spiega Andrea, uno dei meccanici più bravi in De Rosa – per entrare in sintonia occorre prima di tutto fare una bella pedalata rotonda e costante.” “E i rapporti? Come si tengono?” chiedo un po’ sorpresa dall’approccio che sembra più olistico che meccanico. “È importante fare percepire al motore che ti stai sforzando. Solo così lui reagisce dandoti il massimo dell’aiuto, se lo vuoi. Quindi se pedali agile risparmi le batterie, se invece metti il rapportone duro lui ti aiuta di più“.

Bene. Sembra facile. E rincuorata da un paio di rampe del garage provate con le diverse combinazioni me ne vado a dormire serena.

L’indomani alla partenza siamo un bel gruppetto misto di 6 atleti.

C’è Diego Cecchi, il capitano dallo sguardo acceso di un bell’azzurro, intenso come il cielo della mattina.
C’è Gianni, detto Johnny, ex poliziotto che sembra avere i polpacci scolpiti nel marmo, c’é il silenzioso Andrea, che si rivelerà un perfetto “cronometro umano” nelle gare di regolarità, c’è la bella Beatrice, ospite di una tappa e albergatrice di Verona ed Edoardo, maestro di sci di Ponte di Legno.

Un selfie propiziatorio prima di partire da Valdobbiadene verso San Martino di Castrozza. Da destra, Johnny, Beatrice ed Edoardo

Foto di gruppo, firma e via! Si parte tra i filari di vite nello splendore delle colline inondate di sole. L’effetto alle gambe della pedalata assistita applicata alla bici da corsa è ancor meglio di come lo ricordavo. Sarà merito del sistema “intelligente” che offre il motore monoblocco della Bafang? I due ingegneri, un cinese e un polacco, subito soprannominati dal gruppo “I Bafanghi”, sembravano due veri nerds sicuri del fatto proprio.

E così spingo rotondamente sui pedali e decido di testare fino in fondo la macchina prodigiosa, non lesinando l’aiuto che può darmi. Certo che la bici a pedalata assistita tende un po’ a viziarti… chi è che può dirsi immune fino in fondo alla tentazione di resistere allo zuccherino di una fatica minore? Il ciclista è sì masochista, ma fino ad un certo punto. E poi al Giro E si mormora, non certo senza un po’ di sdegno, che ci siano modelli di bici “sbloccate”, cioè in grado di superare i 25 km/h, a onta del codice della strada. Naturalmente non è il caso delle e-road De Rosa e delle Pinarello, ma è certo che per stare dietro ad un gruppo in cui alcuni concorrenti sono “meccanicamente super-dotati” gli sforzi sono belli intensi. Del resto è tutto un esperimento… ci sta anche questo test nel test. Forse.

Nella bella foto di Jennifer Lorenzini, il gruppo tra le colline di Valdobbiadene

Tutto quindi sembra filare liscio, ma come si sa io non mi diverto se non c’è la sorpresina. E così fu. Al 66° km ecco il pit stop per il cambio delle batterie ed ecco anche che l’ingegnere cinese, il Bafango nr 1, si accorge di un problemino al mio motore che, va detto, è stato spremuto in lungo e in largo per tre settimane, con cambi batteria al volo e pioggia torrenziale. Così, poveraccio il motore Bafang, bisogna capirlo. Ed io pure, con l’idea di metterlo severamente alla prova, forse gli ho dato il colpo di grazia.

Cristiano De Rosa nell’inedita veste di meccanico insieme al suo collaboratore Tiziano Arcadi si prendono cura della mia bici

Ecco che quindi il team De Rosa in coro mi fa: “ok, si cambia bici!” poi però l’amara realtà si fa strada. La mia è la bici più piccola. E l’unica altra bici della mia misura, in uso a Edoardo, poteva sì venire a soccorrermi (un maestro di sci giovane e forte non avrebbe avuto troppi problemi), ma, ulteriore inconveniente non da poco, il mio amore per le scarpette da cross al carbonio della S-Works, mi rende la solita mosca nel latte, con pedali SPD Shimano. Sì perché vado in ufficio con le scarpe normali e poi mi cambio per una corsetta in pausa pranzo. E allora i meravigliosi pedali reversibili che tanto mi fanno gioire day by day, ecco che in pieno Giro E si tramutano in una trappola mortale.

Gli splendidi scenari di montagna sulla strada verso San Martino di Castrozza ripagano di (quasi) tutte le fatiche – Ph. Jennifer Lorenzini per il Giro E

Bene. Resistere. Finché è un su e giù tipo Brianza si può fare. E sotto San Martino di Castrozza non ho difficoltà a stare in scia e pedalare. Certo che l’effetto è un po’ quello del gamberetto pietro, che più va avanti più va indietro. La sensazione è proprio quella: 5 metri con l’aiutino e 2/3 frenati come il pallone turco di Marinettiana memoria. Oh sì, il futuro ha bisogno di eroi che si lancino in esperimenti. Costi quel che costi. Ebbene la pedalata assistita passerà anche per la mia esperienza.

Cristiano De Rosa non si è certo tirato indietro e ha pedalato con la sua squadra al Giro E. Qui lo vediamo all’attacco di Passo Rolle, mentre finge di fare fatica! – Ph Jennifer Lorenzini

Stringo i denti e vado. Con la benedizione di Fabio Alberti che, come un angelo, si staccava dalla scorta tecnica per appoggiare le sue ali alla mia schiena e portarmi a raggiungere gli altri, “superdotati di motore”, con volate a 70 km/h. Certo che avere un campione mondiale su pista che ti spinge in salita con la moto non è da tutti.

Nel frattempo la mia bici, alleggerita dalla batteria (inutile portarla a spasso a gratis) guadagnava una leggerezza simile alle bici normali. Sì perché la De Rosa, con motore e tutto, pesa solo 12.8 Kg. Senza batteria probabilmente ero sui 9/10 Kg. Non male. Ma sempre troppo per una normodotata come me che, rispetto al gruppo di gagliardi ex atleti (tra loro anche la grande Fabiana Luperini) e le ragazze scatenatissime del Team Kilocal, che, con le loro tutine bianche (e vent’anni di meno) sculettavano allegramente sulle nuove selle SMP progettate per le donne, non potevo certamente che fare la parte di chi ha le lumache che gli camminano sulla schiena.

Fabiana Luperini, in maglia verde, circondata dalla squadra imbattibile delle ragazze di Kilocal – Ph Jennifer Lorenzini tratta dal sito del Giro E

Ebbene sì, a -7 km dal traguardo a San Martino di Castrozza (e dopo 95 km di cui una trentina “in purezza”), ho gettato la spugna. E raccolta dal cucchiaio accogliente del furgone De Rosa tiro finalmente un po’ il fiato. Il buon Tiziano e l’ingegnere cinese, affranto per l’inconveniente, fanno a gara insieme al pubblico già apparecchiato a bordo strada in attesa dei professionisti, per rendermi la disfatta più accettabile. “Prego, prego! Prenda! È formaggio di qui cotto alla brace!” e mentre allungo il braccio fuori dal finestrino per acchiappare al volo un vero cibo degli dei, mi ritrovo subito con una birretta ghiacciata in mano. Il top!

Birretta sul furgone De Rosa per uno “sconto” di 5 km di salita e infine eccomi stremata al traguardo. Meno male che ci sono Beatrice e Cristiano De Rosa ad accogliermi con un sorriso!

Così in un attimo siamo a – 2 km e sai che c’è? Scendo! Mi voglio gustare l’ultima salita al mio passo, senza strafare e, ovviamente, senza motore. Tanto ormai tutti gli altri non sono più nemmeno all’orizzonte. Ma il pubblico c’è. E mi incita come fossi un grande campione “Dai forza! Dai che ci sei! Dai che manca poco!”. Chissà se qualcuno vede che sono “smotorizzata”. Cuore e fiato sono a mille neppure fossi sull’Everest. E ogni metro sembra tosto come sul Muro di Sormano. Effettivamente è tutta salita. Ecco: – 500 m. Come un giro di velodromo, mi dico. Un niente. Verticale però. Forza. Adesso siamo a metà pista. Vedo il traguardo. E la musica sparata a tutta dal palco già gremito di gente? Ma sono i Clash! Should I stay or should I go? Perfetta colonna sonora. La canto a squarciagola sputando fuori tutto l’animo punk che c’è ancora in me. E taglio. Non la pelle con le lamette, ma il traguardo.
Prima tappa del Giro E conclusa esclusivamente con le mie gambe. E nel cuore, sempre più De Rosa-style, la gioia di avercela quasi-fatta.

Nella bella sequenza scattata da Massimo Salvadore del team De Rosa tutta la fatica degli ultimi metri guadagnati senza motore a San Martino di Castrozza

Velodromo Parco Nord: un pomeriggio da… campioni!

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Già solo l’elenco dei campioni attesi in questo memorabile martedì 18 giugno 2019 aveva lasciato incredulo più di un appassionato. Eppure la locandina parlava chiaro: Francesco Moser, Gianni Motta, Beppe Saronni e il super gregario di Moser, Simone Fraccaro insieme a Nicola Miceli, avrebbero pedalato insieme a chiunque avesse avuto due ruote e la voglia di farsi una sgambata nel Velodromo Parco Nord.

Ma come… Saronni insieme a Moser? Più di una voce incredula si era sollevata sentendo i due nomi. Sì perché tutti gli appassionati sanno che, come Max Biaggi e Valentino Rossi, Niki Lauda e James Hunt, Bjorn Borg e John McEnroe o Coppi e Bartali, tanto per rimanere in tema di ciclismo, i due non si potevano tanto vedere…
Grande curiosità generale, quindi, per vedere con i propri occhi se le promesse sarebbero state mantenute.

Saronni, in foto con Mario Bodei, presidente di Datecipista, e Moser, i due eterni antagonisti entrambi presenti al Velodromo Parco Nord… si saranno stretti la mano?

Così, ecco che un pomeriggio qualsiasi, più caldo del solito, trasforma il Velodromo Parco Nord, gestito dai volontari dell’associazione sportiva Datecipista, nel crogiolo dei desideri esauditi. “È da quando sono ragazzino e giocavo con le biglie in spiaggia che sognavo di pedalare con Moser… e con Motta!“, confessa Marco aka “Muazi”, il nostro rider-shaolin. Con la sua elegantissima maglia camouflage è pronto a combattere per un selfie.

Gara di selfie e foto con le star. A sinistra Gianni Motta con il Cav. Uff. Erminio Capelloni, che coordina le Guardie Ecologiche Volontarie del Parco Nord e, a destra, Marco “Muazi” pronto per un glorioso selfie con Moser – ph Carlo Mondin

Dunque ci siamo fatti tutti belli. C’è chi ha sfoderato le maglie vintage indossate ai tempi dal proprio beniamino e chi, come Luca Salvadeo di Bike Channel, ha indossato la sua divisa di quando correva, confermando una forma perfetta. E noi volontari di Datecipista? Per l’occasione abbiamo sfoggiato la nostra nuova divisa, prodotta niente meno che da uno dei protagonisti della giornata: Simone Fraccaro. È infatti con la sua GSG che abbiamo realizzato anche il mio di sogno… quello di avere una divisa finalmente moderna e performante.

Ma classe (e stile) a parte, ecco la cronaca del rutilante pomeriggio.

Naturalmente un po’ trafelata (difficile sfuggire alle grinfie del lavoro) scorgo all’arrivo un bell’assembramento di gente davanti all’ingresso del velodromo. Non manca un’ambulanza. Perbacco, mi dico, che organizzazione. Persino l’ambulanza di sicurezza.  Ma allora è proprio vero che quando si è in stato di grazia si vede tutto rosa…

Una bella caduta non poteva mancare… per fortuna niente di rotto! – ph Carlo Mondin

Eh… son caduti in tre!” mi dicono appena il piede scende dal pedale. Oddìo sarà mica caduto un Saronni… un Motta…
No, no, solo appassionati. Una bella grattata! Si volevano fare belli davanti a Saronni… daje, daje e sbam!“.
Allora Saronni c’è!È appena andato via“, mi dice Francesco, uno dei volontari sempre presenti. “Ma come… senza incrociarsi con Moser?” Già. Beppe è arrivato prestissimo, proprio all’apertura delle ore 15.00. E già era noto che Moser ci avrebbe raggiunti dalle 16.00 circa. Che le vecchie ruggini non siano ancora del tutto sopite?
Chissà… ma bando alle chiacchiere… siamo tutti qui a pedalare, non certo a fare congetture sulle (sane) rivalità fra campioni.

C’è un gruppo che va a 40 km/h.Entra Laura!” mi grida Alfredo Zini, consigliere della FCI Lombardia. E come dire di no? Un’accelerata e via. Con i muscoli ancora un po’ freddini, nonostante il caldo, inizio subito a girare in velocità. Naturalmente in questo tipo di situazioni si fa una faticaccia boia: zero ritmo, i mille saluti che levano il fiato, le continue accelerate per farsi belli… roba da sfiancarsi in 5 minuti. Ma vuoi mettere salutare Gianni Motta già sudata come se avessi corso una tappa da sua gregaria? Con Gianni, insieme a Mario Bodei, si era fatta una bella mangiata in trattoria, in fuga dal buffet della presentazione della Colnago C64. Si ricorda perfettamente di me, che gioia!
Cerco di affiancarmi a lui per studiarne la pedalata, ma le nostre strade si dividono subito. Lui su nella variante, io giù nell’anello veloce. Sliding doors.

Da sinistra, Simone Fraccaro, eroico gregario di Moser, Mario Bodei, Gianni Motta e Francesco Moser

Nel frattempo c’è fibrillazione all’ingresso. “Ecco Moser!“. L’entrata in scena del campione è sempre uno spettacolo. Non c’è passo in cui non venga fermato per un selfie, un autografo, una stretta di mano o una fraterna pacca sulla spalla. Moser ha proprio questo di bello: è disponibile a farsi amare. È amico di tutti, la sua joie de vivre attira la gente come una calamita.

Calamita che in pista produce subito un bel treno da prendere al volo. In testa c’è Claudio, che con la sua Cannondale a pedalata assistita è il nostro “stayer” ecosostenibile. Moser si ricorda di lui e da bravo pistard gli chiede di tirare il gruppo. Che bello stare in scia di Moser! Mentre giro in velodromo penso anch’io alle mie biglie sulla sabbia e sì, mi ricordo che tutti i bambini volevano quella in cui c’era lui. Non è cambiato niente. E tra me e me penso: ma chi lo avrebbe mai immaginato? In poco più di due anni in cui pedalo quasi sul serio sono qui in velodromo che riesco a stare a ruota del campione che ha vinto da professionista più di tutti. Incredibile.

Lo stile impeccabile di Francesco Moser. A tirare il gruppo c’è Claudio che fa le parti dello “stayer” con la sua Cannondale a pedalata assistita – ph Carlo Mondin

La torta! Ecco la torta!Bella fresca da Cinisello è arrivata la sorpresa per Francesco Moser. Sì perché l’indomani sarebbe stato il suo compleanno e allora… fermi tutti, si brinda! Naturalmente con il vino prodotto da Moser nel suo Trentino.

Giusto giusto per un brindisi arriva anche Riccardo Magrini, “il Magro”. Ha chiuso appena in tempo la telecronaca del Giro della Svizzera su Eurosport. Baci e abbracci. Ma non di circostanza. Si percepisce tutto il calore che c’è tra vecchi amici che ne hanno passate tante insieme.

Sorpresa! È arrivato Riccardo Magrini, aka “Il Magro” ed è l’abbraccio con Gianni Motta e Francesco Moser

Il ciclismo è questo. Ci sono e ci saranno sempre antagonismi, rivalità agonistiche, sfide a denti stretti, ma poi c’è la stima, l’amicizia, la gioia di ritrovarsi e di sentire di nuovo insieme quel brivido entusiasmante che solo i ricordi più epici possono suscitare. E per “epico” intendo ciò che si è vissuto con intensa emozione. Un sentimento alla portata di ciascun praticante. Dal campione, al gregario, fino all’amatore c’è nel ciclismo quest’idea epica e nobile che rende tutti, ma proprio tutti, parte di una grande, unica squadra.

Buon compleanno Moser!

L’irresistibile torta con la foto di Moser al centro mentre pedala in una delle sue tre memorabili Parigi-Roubaix vittoriose
Si stappano le famose bottiglie del “Moser” d’annata. A sinistra si riconosce il direttore del Parco Nord, Riccardo Gini.
Con il cappellino Datecipista ormai è parte del gruppo compatto! – ph Carlo Mondin
…e per concludere, una piccola gallery di “errori” da evitare: il selfie con il campione a 20 km/h e, nella bella foto di Carlo Mondin, spararsi la posa in accelerata per fare colpo su Gianni Motta! Meno male che è andato tutto bene!

Tutto il gusto di pedalare in gravel

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Si dirà così? “In gravel”? O meglio dire pedalare “con la gravel”? Come tutte le cose nuove c’è ancora da inventargli un linguaggio. E nuova la bici gravel per me lo è senz’altro. Mai provata prima. E provarla è stato proprio bello, anche troppo…

Già sento le vocine tentatrici di Gianluca e Federico di Equilibrio Urbano. Prova, prova la gravel… vedrai che non ne potrai più fare a meno!

Effettivamente il senso di libertà, o meglio, di essere inarrestabili di fronte a qualsiasi terreno è davvero unico. E infine, nonostante la preoccupazione iniziale (“ma come faccio… io non ho la gravel“) e grazie al tempestivo intervento di Cinelli che ha munito me e il mio cliente di una bella Zydeco da testare, non posso che approvare la scelta di PH Apparel, il cliente appunto, di chiedere ad Upcycle un percorso davvero alternativo, che si sarebbe allungato anche nei famosi tratturi. I terreni più amati, ad esempio, da un tipo estremo come Max Bigandrews, il creatore del temibile “Giro del Demonio“, scorribanda brianzola con muri di Sormano ed altre amenità, nonché ideatore di un altro storico giro campestre, denominato appunto “Tratturi Brianzalandia“.

Così mi ritrovo alle 8.00 in punto all’Upcycle a smanettare sulla mia bici per travasare sulla Zydeco sella e pedali. La bici gravel della Cinelli ha proprio i colorini giusti per intonarsi al “rainbow” stampato sulla maglia di PH. Un abbinamento perfetto. Ammesso che si riesca a togliere la mantellina…

La nuova maglia Aero “Rainbow” jersey di PH sembra disegnata apposta per abbinarsi ai colori della Zydeco Cinelli

Già perché, come si sa, sabato mattina è coinciso a Milano e dintorni con l’inizio estate più tempestoso della storia. Tra fulmini, bombe d’acqua e grandinate con chicchi grossi come uova era proprio un po’ da matti partire per un giro in bici e per di più avere in programma di affrontare sterrati magari invasi dal fango.

Ma Roberto Peia di Upcycle, l’ideatore del percorso, ci aveva convinti tutti che sì, sarebbe stato sicuro e fattibile, con la possibilità di deviare sull’asfalto in un amen, nel caso in cui ci fossimo trovati in difficoltà.

Così, alle prime gocce di pioggia, mentre Roberto traffica con i miei pedali da tempo cementati alla mia Bianchi, non posso credere di conoscere i primi due eroici partecipanti: Andrea e Vittorio. Sono loro che ci avevano scritto se potevano partecipare anche con la mtb. Ma certo! E poi si aggiunge Riccardo, con il suo sorriso contagioso; e poi Giulio, che ha appena comprato la sua gravel ed è a caccia di percorsi. Forse sta già piovendo da matti lì fuori quando arriva Paolo, che riconosco, siamo in contatto su FB. Sicuramente il diluvio è iniziato quando arrivano Daniele, Andrea e Claudia… insomma, siamo, nonostante tutto, un bellissimo gruppo di partenti.
Ben 14 pazzi, ne manca giusto uno per non essere i 15 uomini della canzone dei pirati, ma siamo senz’altro pronti a sentire ogni singola goccia di pioggia sulla schiena.

Prima di partire, mentre fuori infuria la “tempesta milanese”, Roberto spiega il percorso e il “piano B” in caso di pioggia estrema – ph Andrea Benesso

La pioggia però in certi casi è bella, ti fa stare bene” mi dice Riccardo. Vero. È della temperatura giusta e chissenefrega se le scarpe sono già uno stagno. Giulio vorrebbe fermarsi e svuotarle ma poi prevale l’idea che neppure le idrovore potrebbero aiutare in questo caso.
Si torna quindi un po’ tutti bambini e con la sicurezza delle ruote grasse è un piacere fare sci d’acqua nelle enormi pozze a bordo strada.

Arriviamo così a Metanopoli, ben sciacquati e con un principio di schiarita. Roberto fa da cicerone. Queste sono proprio le “sue” zone. Ed è un piacere ascoltarlo mentre, a Rocca Brivio, dopo un primo emozionante tratturo, ci racconta che qui, durante il servizio civile, aveva preso in affitto insieme a un gruppo di “commilitoni” un’ala di questa grande cascina-palazzo fatta di mattoni rossi.

Natura e storia, due bellezze si incontrano nella campagna verso Lodi, a San Giuliano Milanese, dove c’è Rocca Brivio – ph Andrea Benesso

Mi accorgo quindi che, ohibò, non piove proprio più da un pezzo e sono già completamente asciutta. Che bello allora togliere la mantellina e sfoggiare la maglia PH blu con il “rainbow” intonato alla livrea del telaio della Zydeco.

E mi chiedo cosa provo nel pedalarci sopra. Per la prima volta mi sono trovata a muovermi su fondi sconnessi… sassi, fieno schiacciato, brecciolino, buche e sentierini strettissimi dove passa appena la ruota. Eppure mai una volta mi è parso di perdere il controllo. Penso che sia questione di un buon bilanciamento. E l’idea di essenzializzare la guarnitura con una sola corona è ottima. Il cambio SRAM APEX1 a 11 marce fa il suo ed è impossibile sbagliare, con un pignone che consente di fare tutto ció che serve senza perdersi nelle combinazioni.
In più quei chiletti di peso che pensavo mi sarebbero sembrati di troppo, alla velocità raggiungibile su un fondo movimentato come quello dei tratturi lodigiani, non li ho neppure percepiti.

Roberto Peia, in primo piano, ha appena scattato la tipica foto di gruppo – ph Andrea Benesso

Velocità che consente di chiacchierare agevolmente con i nuovi amici, scoprendo tante cose interessanti. Ad esempio che Claudia prima di innamorarsi delle due ruote praticava uno sport oggi molto più di moda, a livello femminile: il calcio. Oggi però toglietele tutto, anche il pallone, ma non la bici!

Nel frattempo l’avventura prosegue e il percorso ideato da Roberto è un vero luna park. E lo scenario magnifico. Passiamo tra giovani spighe di grano, già belle dorate, e il verdissimo granoturco. Poi ci troviamo in boschi fitti che pare di immergersi nella giungla, tra passaggi-tunnel che paiono scavati tra le foglie. Finché Lodi non ci ha abbracciati, salutati niente meno che dallo scampanio del mezzogiorno.

Finalmente la strada! Non sembra ma siamo appena usciti da una vera giungla… ph Andrea Benesso

E il ritorno? Si è filati lisci a casa senza ancora riuscire a prendere una goccia. E devo dire che la Zydeco se l’è cavata bene persino sull’asfalto, anche se con le sue grosse ruote scolpite della Kenda l’effetto pantofola è un po’ inevitabile. Ma vuoi mettere poter andare dove vuoi? È il piacere dell’arte del compromesso. E poi, con le stradine di campagna non si scherza. Non c’è mica l’asfalto del Velodromo Parco Nord. E per una come me che mal sopporta anche il fondo granuloso dell’autofromo di Monza, avere una bici che non sente neppure il buco rabberciato con il bitume è una vera pacchia.

Prima di sgommare a casa, riuscendo ancora a schivare i temporali, non può mancare un caffè in piazza a Lodi

Milano ci accoglie quindi con le strade che sembrano averne viste di cotte e di crude. La tempesta ha tirato giù rami e foglie. E si palesa quindi, forte e chiara, l’idea di averla proprio scampata bella.
Così, con la felicità in corpo di chi sa di aver fatto qualcosa di elettrizzante di cui serberà un ricordo indelebile, gruppo compatto… e gambe sotto al tavolo di Upcycle! Ci vuole proprio una bella birra e un assaggio alla buona cucina del cuoco siberiano.
Cin cin, al nostro giro, al nostro primo e pionieristico PH Coffee to Ride milanese-lodigiano!

 

Campionato Giornalisti Ciclisti 2019: la crono nelle terre di Learco Guerra

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A volte essere preceduti dalla “fama”, bisogna dirlo, non aiuta. Così si è presentata niente meno che una super campionessa, Ilenia Lazzaro, alla Crono Giornalisti Ciclisti di sabato 29 giugno, organizzata perfettamente da Roberto Ronchi e da Gian Paolo Grossi nelle terre della “locomotiva umana” Learco Guerra.

Ed è nata quindi la meravigliosa quanto improbabile sfida tra me, la campionessa nazionale in carica in quanto unica quota rosa dello scorso anno, e la vera campionessa Ilenia Lazzaro, accorsa a San Nicoló Po anche per “la curiosità di volermi conoscere, dato che abbiamo tanti amici in comune”.
Onoratissima quindi, sia di fare conoscenza con Ilenia sia di cederle la coppa della migliore in campo.

Ma andiamo con ordine. C’è da dire che fin dall’inizio la giornata aveva il suono cristallino delle grandi occasioni.
Il treno regionale pulito e fresco ben oltre le più rosee previsioni, i 16 km percorsi in bici nelle solitarie campagne inondate di sole per raggiungere la meta, l’arrivo a San Nicoló Po e la scoperta di una specie di villaggio del West, con piccole case allineate lungo un’unica strada.
A ricevermi il grande cartello che ricorda l’altrettanto grande Learco e, più avanti, il gonfiabile che inneggia all’arrivo.

Il grande gonfiabile dell’arrivo nel “mezzogiorno di fuoco” a San Nicolò Po e il cartello che ricorda Learco Guerra

Non c’è un’anima. Del resto sono quasi le 13.00 e ci sono almeno 38 gradiScorgo una signora boccheggiante sull’uscio di casa. “Buongiorno”, la saluto ricambiata. San Nicoló infatti è un centro talmente piccolo che viene spontaneo entrare in punta di piedi, come se fosse il tinello lustro di una brava donna.

Mi guardo intorno. Avevo in progetto infatti di mangiare in paese, ma la sosta davanti all’unico bar gremito di uomini del posto probabilmente in attesa di noi giornalisti per la gara mi conferma che no, qui non si può “mangiare qualcosa” come se fossimo in Darsena alle 3.00 del mattino. Tra lo stupore generale (probabilmente non incarnavo al meglio l’idea di giornalista-corridore che avevano immaginato) vengo indirizzata a San Giacomo Po, oppure no… forse meglio anche a Bagnolo San Vito, distante 6 km.

Il paesino di San Nicolò Po addormentato nella canicola del sole allo zenit

Ok. Prendo la rincorsa e vado su per la strada che s’inerpica sull’argine. La vista da lì si estende tra le vaste campagne e, alla mia destra, finalmente scorgo una fettina di Po.

Ma quanto manca? Finalmente un cartello mi fa scendere a San Giacomo e così, dentro al grumo di case, trovo l’insegna “Le Donne di Alfeo” e ci entro bellamente con tutta me stessa, ovvero compresa di bici.

Convinta la signora Katia, cuoca e proprietaria, che la mia Bianchi è stata anche pulita di catena per l’occasione, faccio man bassa di tortellini. “Meglio forse di carne – spiega Katia – così fai piatto unico con tutto, anche la pasta che è fatta in casa“. Una vera delizia. Ed è bello poi esplorare dalle foto appese in sala la storia di questo luogo, nato dal papà pollivendolo e dalle passioni di Katia che oltre a saperne tanto di cucina è anche esperta di canto e di Bruce Springsteen e ha fatto la comparsa, insieme alla gente del paese, in un film di Olmi, “I Cento Chiodi“. Chi l’avrebbe mai detto che dietro a quel grembiule rosa si potesse celare un’artista non solo dei fornelli?

I tortellini con carne di Katia del ristorante Le Donne di Alfeo a san Giacomo Po e la “fettina” di fiume intravista dalla strada sull’argine

Rifocillata a dovere, ma con la sensazione di essere leggera, ritorno a San Nicolò con già addosso la mia bella e nuova divisa verde-ParcoNord Datecipista, l’Asd del velodromo di cui faccio parte. È proprio un piacere indossarla nelle grandi occasioni.
Nel frattempo il paese si è svegliato e c’é il tipico via vai di riscaldamento pre gara.
Ricordo che devo assolutamente gonfiare le ruote e così la richiesta di una pompa diventa il pretesto per fare due chiacchiere. Ci si riconosce con Massimiliano Muraro, collega di Vercelli e presente anche l’anno scorso, mentre con Paolo Buranello di Tuttosport si decide di fare un giro di ricognizione nel circuito.

Con Learco Guerra, il nipote della “locomotiva umana”, parliamo del velodromo che si vorrebbe realizzare da queste parti. A destra il quadro che ritrae Learco Guerra nella tipica posa da velocista

C’è vento accidenti. E da come visto fin dal giorno prima dal meteo, sembra che sarà contrario proprio negli ultimi 7 km di rettilineo. Già mi figuro lo strazio. Così con Paolo si decide di provare insieme il percorso.

L’inizio è fantastico. Anche qui la strada sale sull’argine da cui esplode la visione a 360 gradi della campagna. Vento apparentemente inesistente. Però si va. O sono le mie ruote finalmente gonfie?
Il percorso è poi perfettamente apparecchiato dagli organizzatori. Con frecce gialle a indicare le rare svolte e già qualche uomo con la bandierina pronto a bloccare enormi trattori.

La vastità della campagna vista dall’alto delle strade sopraelevate sugli argini: spettacolo!

Con Paolo si chiacchiera tranquilli. Scopro in lui un autentico appassionato amatore, fin dall’infanzia, fin dalla prima Bottecchia da corsa regalo del padre per una bella promozione. In seguito, facendo notare al mio papà che la bicicletta scelta per me ai tempi era un “cancello” per giunta da donna con tre sole marce e del tutto inadatta a pedalare sulle salite di Madesimo, mi arriva il seguente messaggino via whatsapp: “Guarda che Coppi ha cominciato su una bici da commesso facendo le consegne. Comunque sono orgoglioso di te.

Di chiacchiera in chiacchiera… oddìo! Ma mancano 15 minuti alla mia partenza e siamo forse a più di 5 km dal paese! Accidenti, si deve volare!
Paolo cavallerescamente comincia a spingere. C’è pure il vento contro. Per fortuna la sua partenza è tra un’ora, io invece so già che sarà quasi come fare una doppia crono, anche se mi appiattisco sul manubrio per stare al meglio in scia.
Grazie Paolo! se non ci fossi stato tu…

Partita! nella bella foto di Alberto Glisoni si vede anche Paolo Buranello in bici… a cui devo la mia puntuale (per un pelo) partenza

Ci siamo. guadagno finalmente lo scivolo della partenza. Siamo a -1 minuto! Fiato e cuore sono a mille. Il cronometrista scambia il mio affanno per emozione. Tranquilla… Tranquilla… mi dice. Risparmio il fiato della risposta. Ma nel frattempo bello aver scambiato una parola con la mia unica antagonista, Ilenia. Partirà dopo di me, a tre minuti. Mi basta un’occhiata per capire: no way. Il nuovo obiettivo? Resistere il più a lungo possibile. Sicuro però che mi prende. Garantito. Bisogna solo vedere quando.
Ilenia mi passa un po’ della sua acqua. Gentile.

La classe di Ilenia Lazzaro alla partenza – ph Alberto Glisoni

Non faccio in tempo a rendermi conto del countdown e già sto rotolando un po’ incerta dalla pedana. Partire da fermi non è facilissimo. Via. Sono dentro.
Nelle orecchie risuonano i consigli di Bertò, uno dei soci di Datecipista che di crono ne ha vinte tante. “Prima di tutto agilità, fai i primi km cercando di mantenere i 95/96 rpm.Sono a 102. Ok, quindi tolgo un dente, così prendo più velocità. So che posso permettermelo, siamo nella prima metà con vento a favore.
Rimugino il consiglio del Villa, marito nonché preparatore dell’amica Iryna: non devo fare l’errore di andare a tutta con il vento in poppa e poi inchiodarmi quando ce l’ho contro.
Sì, devo risparmiare. E poi non posso deludere Claudio, che mi ha allenata dietro alla sua bici a pedalata assistita in velodromo Parco Nord meglio di uno stayer.

Da sinistra, l’applaudita partenza di Grazia Colosio che ha corso come ospite con la sua handbike, Massimiliano Muraro in attesa del via e la concentrazione del futuro vincitore della categoria senior Giancarlo Perazzi – ph Alberto Glisoni

Così prendo il ritmo. La campagna sembra accarezzare la mia bici e mi pare di essere in una passeggiata. Raggiungo i 38 km/h. Non esagerare, mi dico. E infatti alla prima svolta ecco una folata che quasi mi sposta la bici. Che pure è pesante, ho persino dimenticato di lasciare giù gli attrezzi!
Finita la pacchia quindi. Ora si tratta di resistere. Un occhio al Garmin, non devo mai, ripeto MAI, scendere sotto 30 km/h. Altrimenti le lumache mi saliranno su per la schiena. Ok, pare di farcela. Il cuore è a 180 bpm. A dire il vero sono partita che ero già bella carica… a 160. E posso ancora salire. Ai primi 8 km tuttavia non posso che pensare che sono solo a metà. Ecco… il bicchiere è mezzo vuoto o mezzo pieno? Vada per il mezzo pieno, investiamo nell’ottimismo.

Lo scatto alla partenza di Paolo Buranello che arriverà terzo nella categoria gentlemen nonostante la corsa pre-gara per scortarmi alla partenza

Non passano che altri due km e già nel pieno del lungo finale con il vento in faccia sento che arriva la moto di Ilenia. Beh… non c’è male, mi ha ripresa dopo 10 km. Del resto Strava parla chiaro. In partenza, dove io superavo i 35 km/h lei era già a oltre 42 di media.
Forza Laura!” mi urla superandomi. Fairplay. Ed anche se io di solito sono un tipo competitivo questa volta sono felice per me e per lei. Del resto anche le moto di scorta la dicono lunga: a me una placida Vespa, a lei uno scooterone di quelli rampanti. Non c’è gara.
Tuttavia non posso che compiacermi di non aver ceduto. Quante volte al Giro o al Tour capita di vedere il corridore raggiunto in crono crollare definitivamente?

Ilenia Lazzaro ed io sfrante ma felici all’arrivo. Parafrasando Casablanca: “Ilenia, I think this is the beginning of a beautiful friendship”

Io no. Anzi… daje, non mollo. Spingo e tiro. Guardo le mie ginocchia, piego a ritmo le braccia, alzo la testa ogni tot… Insomma cerco di inventarmi una cantilena da suonare con il corpo, come ho visto fare dal buon Froome.

È incredibile come i km non passino mai in certi casi! E mai sono stata così felice di vedere un cimitero, perché si piazzava proprio all’ingresso del paese. Sì ci siamo! È l’ultimo rettilineo! Butto giù un dente, proprio come mi ha detto Bertò. Vado a tutta. Non c’è nessuno al traguardo a incitare, ma spingo per me stessa. Voglio arrivare che non ne ho più. È così che si affrontano le crono. Così mi hanno insegnato gli amici in velodromo. Sono quasi a 38 km/h. E calcolando la corsa per arrivare puntuale alla partenza… sono alla fine di una lunghissima sessione, ben oltre i 16 km del circuito. Sprint finale. Ultimi metri. Gambe in fiamme, cuore a palla. Ci sono! Sono sotto al gonfiabile. Game over. È stato bellissimo. La crono è così veloce che non fa a tempo a finire che già è diventata un meraviglioso ricordo.
E per suggellare un ricordo che già sembra appartenere all’epica personale cosa c’è di meglio che brindare con gli amici-giornalisti-ciclisti?

Il destino corre sulla Transdolomitics Way

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Cinque figli e uno sguardo da Peter Pan che confessa una voglia di giocare infinita. Tenera istruttrice di babywearing e feroce guerriera sui pedali nell’eterna sfida contro se stessa. Capace di fare il giro del Garda in notturna e terrorizzata alla sola idea di un paio di centrifughe al Velodromo Parco Nord dove, appunto, si è vista molto raramente.

Ho paura in velodromo – mi dice sempre – andate troppo veloci”. Salvo vederla alla partenza della Granfondo Milano solo per i primi 3 minuti… poi è già oltre. Naturalmente a fare il lungo con i più veloci, uomini o donne che siano.

Questa è la mia amica-ciclista Sarah Cinquini. E aggiungo l’aggettivo “ciclista” proprio perché è un rafforzativo. Le amicizie che nascono con la bici godono di quella schiettezza un po’ maschile che alle donne male non fa.
E nel giorno in cui c’è una prima volta per una donna che diventa presidente della Commissione Ue, racconto l’avventura dell’unica donna che ha fatto (e finito) nel 2019 l’impressionante Transdolomitics Way. Una “unsupported ultracycling challenge” che propone la bellezza di circa 1.300 Km non stop sui passi dolomitici con 27.700 mt di dislivello. Però niente paura… l’organizzazione non ti lascia mai solo e potrai sempre contare, ad esempio, sul “telo di sopravvivenza”, sul fischietto o sul campanellino, giusto per rimanere nel tema Peter Pan, che è d’obbligo portarsi da casa. Così recita la home page della gara. E meno male che qualche “comfort” è concesso!

Il gruppo dei concorrenti della Transdolomitics Way alla partenza e Sarah mentre firma. Sarà l’unica donna (su due in gara) a riuscire a farcela

Questa che racconto, attenzione, è una storia che possiede anche un inatteso risvolto magico…

Ma andiamo con ordine e, soprattutto, disciplina. Disciplina di cui Sarah è maestra perché, ad una fortissima emotività, sa controbilanciare una lucidità degna di un meccanismo svizzero.

Sentita al telefono a botta calda, dopo oltre 5 giorni di pedalata e una giornata scarsa di riposo, il primo ricordo che affiora è il ginocchio. Quello di cui erano saltati i legamenti soltanto quest’inverno per quella stupida sciatina che ha rischiato di compromettere la stagione ciclistica? “No no – precisa Sarah – da non credere ma è l’altro che mi faceva male. Così ho passato gran parte del tempo con gli antidolorifici. La maggior parte dei ritiri è stata infatti causata da problemi alle ginocchia“.
Il secondo ricordo è per Omar Di Felice, vincitore assoluto a pari merito con Mattia De Marchi, che le ha offerto un caffè. Di lui, penso mentre Sarah mi racconta l’episodio, mi colpiscono sempre i selfie che pubblica su Strava mentre macina km: occhio pallato e sorrisetto, ricorda l’Ermes etrusco in terracotta. Con Sarah si conviene che no, di gente normale che fa queste cose non ce n’è…

La misteriosa somiglianza tra Omar Di Felice (al centro) e l’Ermes etrusco in terracotta. Del resto sono conterranei… A destra Sarah Cinquini in notturna. Il sorriso non si vede, ma c’è!

Eppure di Sarah è proprio la “normalità” che stupisce. Una non-professionista che ha iniziato pochi anni fa a correre “sul serio” e comunque sempre per svago che riesce a fare queste cose.
Sarah è partita da sola con le sue sacche sulla bici. Si è costruita in testa le sue “tappe mentali” e le ha semplicemente affrontate. Una dopo l’altra. E così eccola arrivare bella pimpante sullo Stelvio, dormire tre ore, da mezzanotte alle tre del mattino, affrontare la discesa e il Mortirolo, poi menare di brutto con il compagno Folletto Verde Roberto per non perdere il traghetto e attraversare il Garda, poi affrontare la salita e trovare un alberghetto sempre per tre ore di sonno… il tutto pedalando 14 ore filate al giorno/notte, mangiando in corsa qualche panino e con un’escursione termica dai 30° con la luce, fino ai 5° della notte.

Mangiare quando e come si può. E’ una ultracycling, bellezza!

Dopo 14 ore di pedalata continua si diventa più fragili – dice – e spesso bastava un nonnulla per farmi piangere. Magari anche solo 50 mt nella direzione sbagliata… per questo ho preferito staccare i contatti con casa. Ascoltare i bambini avrebbe acceso la mia parte sensibile…

Si perché per affrontare queste avventure epocali ci vuole il massimo della capacità di concentrazione e convinzione. “A cosa pensavi mentre pedalavi?” “Più che altro ascoltavo musica, anche perché il pensiero ossessivo nei primi 700 km era quello di non farcela. Poi, superati i 700, si è rovesciato in positivo… ‘ce la faccio, ce la faccio…’ e mi dicevo anche che se ero lì era perché stavo facendo quello che avevo sempre voluto fare“. Nota sulle proporzioni: alla De Rosa Granfondo Firenze (sotto il diluvio) io ho pensato le stesse cose dopo i primi 60 km. Per la serie: quando anche gli zeri valgono moltissimo! Ascoltandola fin qui sembra davvero che sia stata una passeggiata, anche perché Sarah, a poche ore dallo sforzo, non ha il minimo dolore alle gambe e chiacchiera bella sveglia come se fosse reduce da un week end in spiaggia.

Sarah sembra bella fresca eppure chissà qui quanti km aveva già macinato!

Però c’è sempre un “però”. E quello di questa storia si palesa prima sotto forma di pioggia e freddo ad Asiago, che la costringono ad anticipare la sosta a Bassano del Grappa, dove dovrà asciugare i vestiti con il phon nel solito albergo delle “3 ore di riposo” e poi si materializza in un bello sfasamento di ritmo e orari che, con gli antidolorifici per il ginocchio, iniziano a metterla in difficoltà. E siccome il fato non guarda in faccia a nessuno ecco che è proprio in queste situazioni già al limite che arriva il potenziale “colpo di grazia”.

Verso San Boldo accade ciò che non dovrebbe mai accadere nei momenti difficili: una disgraziatissima foratura. Che sembra far crollare tutto. Sì perché Sarah aveva montato i tubeless con la camera d’aria, per essere leggera e sicura al tempo stesso, ma i residui di mastice rendevano inamovibile la gomma dal cerchione…
Ed ecco allora che ancora il fato, il destino, o forse la divina provvidenza, chissà, si materializzano in un’altra donna appassionata di ciclismo.

I momenti duri della ultracycling: asciugare le scarpe con il phon, dormire dove capita perché si sviene dalla stanchezza, le ginocchia doloranti e i tunnel… che da soli fanno sempre un po’ paura!

Sarah, ti presento Anna Marika. Tu non la conosci ancora ma lei è lì che ti segue da giorni, grazie al gps online della gara, perché Stefano, il suo amico-ciclista e mio amico di Strava, che ho incontrato finalmente di persona al “Giro E” a Croce d’Aune, le ha trasmesso tutta la gioia che si prova ad andare in bicicletta. E così Anna Marika a 45 anni ha iniziato a fare qualche randonnée di 200/300 km e tanto si è appassionata a seguire quella Sarah che, unica donna, sarebbe transitata proprio dalle parti di casa sua. Convinto il marito a raggiungere in macchina uno dei passaggi del percorso “Dai ci tengo tanto, andiamo a battere le mani a Sarah!” e pensandola persino straniera, perchè è proprio difficile per noi donne italiane immaginare che una normale donna italiana possa fare cose così incredibili, ecco che Anna Marika è lì in strada con gli occhi puntati sul gps aspettando il passaggio di Sarah. Che non arriva… strano! E infatti il puntino sulla mappa è fermo nel paesino di Niccia. Cosa sarà successo? Andiamo in macchina a vedere…

Sulla Transdolomitics Way c’è una bella collezione di Passi da fare, scollinando anche in piena notte…

Così ecco che si scrive da sola la storia perfetta. Che posso persino raccontare dai due punti di vista.

Quello di Sarah: “Ero disperata, non riuscivo a scollare la gomma, sentivo che tutto era finito… stavo piangendo e a un certo punto arriva una che scende dalla macchina, mi abbraccia spiegandomi che è una mia fan… incredibile… poi il marito porta a casa la mia ruota e con il temperino sistema tutto! Un miracolo!

Ed ecco quello di Anna Marika:Arrivo in macchina e la vedo che si tiene la testa tra le mani, poareta! Sarah! Sarah! La chiamo, le corro incontro, l’abbraccio la consolo… Non ti preoccupare, non è finita, la bici si aggiusta! Mi vengono ancora le lacrime agli occhi a pensarci…

E vissero felici e contente. Sarah con il suo percorso concluso in bellezza dopo oltre 5 giorni, 1.300 km e circa 22.000 mt di dislivello e Anna Marika con il ricordo indelebile di aver fatto parte di un disegno magico, che senz’altro le farà amare ancora di più il ciclismo.

Sembra una favola… e la è. Ed è vera come tutte le vere favole. Così com’è vero il senso dell’amicizia che corre sulle ruote della bicicletta, che accende gli animi, che mette elettricità alle gambe e ci fa compiere piccoli-grandi miracoli.
In questa storia, come spesso può accadere, un semplice puntino su una mappa gps si è rivelato in tutta la sua luminosa realtà. E ha vinto. Amor omnia vincit.

Amor Omnia Vincit.
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